L’ex segretario della Cgil: «In piazza più movimenti, un popolo che non si spiega con vecchie categorie»
ALESSANDRO DE ANGELIS
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| La grande manifestazione di Roma |
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| Sergio Cofferati |
In piazza a Genova c’era anche Sergio Cofferati, il “Cinese”. Uno che di mobilitazioni se ne intende. Da segretario della Cgil riempì, nel lontano 2002, il Circo Massimo con tre milioni di persone a difesa dell’articolo 18: «Vedo, in tutte le manifestazioni di questi giorni, tutta un’altra storia rispetto a un’antica tradizione nelle relazioni tra partiti o sindacati e popolo. E sarebbe un errore mettere a questa storia le braghe di ciò che si conosce. Rischi di non capire “chi sono” e “cosa vogliono” quelli che manifestano».
Ecco, chi sono e cosa vogliono?
«Ho visto giovani e anziani, lavoratori di ogni attività economica e precari, alunni e professori. Figure diverse, tenute assieme però da un sentire comune su due temi: il rifiuto della guerra e la difesa dei diritti che la violenza uccide. Ho visto ieri anche incappucciati e frange radicalizzate, ma non si spiega solo con loro una manifestazione di quelle dimensioni».
Insomma, è scattato un movimento, dentro cui c’è di tutto, potabile e impotabile.
«La molla è l’indignazione per quel che sta accadendo e l’anelito alla pace. E questo sentimento si manifesta in forme soprattutto spontanee. La mobilitazione non nasce da una piattaforma o da una dimensione “politica” in senso classico, se non in parte. Vale per quella di venerdì e ancor di più per quella di ieri, che ha tratti di radicalità e di disordine ancora più marcati».
Per questo lei dice: indaghiamo ed evitiamo facili paragoni.
«Qui non c’entra il Vietnam, dove la protesta aveva un forte connotato politico-ideologico: l’imperialismo americano. Né Porto Alegre, che aveva un focus contro la globalizzazione e una struttura organizzativa. Né le nostre mobilitazioni su obiettivi politici e sindacali. Ricorrere ad antiche categorie è un po’ come usare internet per leggere il Novecento. Rischi di non capire».
Che dimensione politica ha questo movimento?
«Sono più movimenti politicamente informi. Non è un giudizio, ma un dato di fatto. Infatti sono movimenti che non hanno un’organizzazione e magari non vogliono neanche darsela. Per questo il tema oggi diventa proprio questo: a chi spetta dare una forma politica al sentimento e come darla».
Qui però c’è un problema. Politica e sindacato si sono accodati. Come fa a guidare chi si accoda?
«Qui c’è la sfida vera. Non c’è dubbio: quelli sollevati – la guerra, i diritti – sono temi che dovrebbero riguardare la politica. Aggiungo: la grande politica. E invece, in questo caso, la politica è arrivata dopo la dimensione sociale. Tuttavia questa crisi di rappresentanza non può essere una giustificazione. Bisogna misurarsi con la risposta».
Come?
«E i pilastri dell’azione cui sono chiamati partiti e sindacati, di fronte alla novità di una grande partecipazione, sono due, irrinunciabili: la ricerca del confronto e il rifiuto della violenza. Questa folla, anche se non vuole, va aiutata a darsi un assetto organizzato, facendo emergere la parte più propositiva e isolando l’estremismo. Chi è organizzato deve provare a farli camminare in questa direzione».
Dia un giudizio degli episodi di violenza di questi giorni.
«Vanno condannati, al pari di certi slogan antisemiti, perché in una democrazia tutte le opinioni sono legittime, anche le più radicali, con un unico discrimine: la violenza. E non vanno minimizzati, perché se il comportamento di una minoranza viene considerato banale o accettabile, esso può crescere. E questa crescita porta in sé due rischi».
Quali?
«Il primo è quello di sporcare le sacrosante ragioni di chi manifesta in modo pacifico e rispettoso. Secondo: ridurre il consenso attorno al tema, alimentando l’altrui riflesso d’ordine».
Vecchia storia la criminalizzazione del dissenso. Ci provarono ai tempi del suo Circo Massimo, utilizzando l’omicidio di Marco Biagi.
«Vedo impegnata all’opera anche l’attuale presidente del Consiglio. Allora andò male perché rispondemmo con una grande “forza tranquilla”, schierata in difesa dei diritti e della democrazia. Anche oggi la risposta deve essere non a chi urla più forte, ma la tranquillità di chi indica soluzioni e prospettive sui temi che hanno suscitato l’emozione collettiva delle piazze».
Lei dice “confronto”. Non vedo chi possa guidare. Questo movimento considera la sua crescita come sbocco. Non riconosce interlocuzioni.
«La cosa impressionante è che la rappresentanza tradizionale, in entrambe le manifestazioni, stava in mezzo a una platea di persone sconosciute. Queste persone non vengono a casa tua, devi essere tu in grado di proporre una discussione leale e trasparente e forme di organizzazione anche nuove. Se non lo fai, proprio perché “informe”, quella massa può essere soggetta a spinte nella direzione di una radicalizzazione».
Ecco, i contenuti. Tra essi magari c’è un giudizio sul piano di pace. Financo Hamas sta riflettendo. In Italia è stato liquidato come “colonialismo”.
«Da un lato è giusto che organizzazioni che si misurano sul tema della rappresentanza cerchino un calore sociale nei movimenti. Dall’altro è necessario che ci stiano senza perdere il contatto con la grande storia. Essere contro la guerra significa essere per i due popoli e per tutte le soluzioni che vanno in quella direzione».
Cofferati, però, diciamocelo. Non sarà che la Cgil ha cercato di supplire con la politica a un corpo sociale infragilito?
«Ci sono dei ritardi, e non da oggi. Penso al fatto che lo Statuto dei lavoratori è del 1970, non tutela una parte consistente del mondo del lavoro e non c’è verso che questo entri al centro della discussione. Non do colpa alla Cgil, che anzi fa degli sforzi. Però penso che la Cgil dovrebbe provare a sollecitare anche Cisl e Uil sul tema dei diritti».
Ma lei avrebbe scioperato?
«Lo sciopero è uno strumento antico, importantissimo, indispensabile. Non va abbandonato, bisogna usarlo ragionevolmente, nelle situazioni nelle quali è efficace. E va accompagnato anche da una dimensione politica che deve stare in campo, non necessariamente attraverso lo sciopero: iniziative, confronti, discussioni, manifestazioni. Non devi cambiare la natura dello sciopero se ne vuoi mantenere l’efficacia».
la Stampa, 5 ottobre 2025



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