
Borgo di Dio
Maria La Bianca

“Quale pace?” c’è scritto sul cartello poggiato a terra davanti al teatro Politeama a Palermo dove, al termine del flash mob “In corsa per la Palestina”, gli attivisti e le attiviste sono state aggredite verbalmente da una donna che contestava la presenza della sola bandiera palestinese negando il genocidio a Gaza. A sentir lei, e le sue urla ininterrotte comprensive di offese, gli arabi non vivono una condizione di apartheid in Israele e Gaza deve essere liberata esclusivamente dalla presenza di Hamas. Impossibile qualunque dialogo fino alla sua decisione di allontanarsi reiterando le offese.
Quale pace, dunque, e soprattutto, come costruirla? Appena ieri, sabato mattina 18 ottobre, al Borgo Danilo Dolci di Trappeto, nell’aprire i lavori della giornata di studi a cura del Centro per lo Sviluppo Creativo Danilo Dolci in collaborazione con l’Università degli Studi di Palermo e con la Rete Università per la Pace, Daniela, figlia del sociologo, poeta e pacifista nonviolento, aveva esordito col dire che no, non c’è una ricetta per la pace, domandandosi, come già il padre in uno dei suoi primi scritti, cos’è pace?
Il breve intervento di saluto da parte del prof. Marco Picone a nome della Rete Università per la Pace di Pisa, mette insieme la teoria con le attività dei dottorati negli atenei di gran parte d’Italia, e quello della professoressa Gabriella D’Agostino, docente del corso di Geopolitica della migrazioni, per il Centro Migrare dell’Università di Palermo, ci ricorda la necessità di parlare in modo scientifico della geografia della pace, rendendo l’esotico familiare e familiare l’esotico in una dimensione pragmatica attiva per contribuire ai cambiamenti in atto intesi come rivoluzioni.
Andrea Cozzo, docente di Lingua e letteratura greca presso l’Università degli Studi di Palermo, attivista amico della nonviolenza, si e ci interroga sulla reale necessità di chiedersi se, per fare la pace, serva davvero sapere chi ha cominciato, in uno schema dicotomico in cui ai buoni, o presunti tali, si giustifica pure la violenza, polarizzando e radicalizzando il conflitto, o se, piuttosto, bisogna scegliere innanzitutto di stare dalla parte oppressa, dandole maggior sostegno seppur non difesa armata.
Inevitabile il riferimento ai due conflitti in corso alle porte dell’Europa, tra l’abbaiare della Nato e l’invasione di Putin, il mancato rispetto di Israele degli accordi a ritroso fino alla guerra del 1948, di reazione in reazione agli attacchi dell’una e dell’altra parte, ognuna parziale, anche in buona fede, in una storia narrata quasi esclusivamente da un unico punto di vista, politico e militare, anche nei manuali scolastici.
In un paradigma dicotomico non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza dialogo e ascolto reciproco. In tale contesto si inserisce il ruolo delle terze parti nella ricerca della verità che, in nonviolenza, deve fare emergere le ragioni di ciascuno e individuarne i rispettivi bisogni.
Karen Venturini, docente dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino, parlando del credo assoluto, anche in ambito universitario, nel capitalismo, ci dà la misura della difficoltà di parlare di nonviolenza in ambito economico, dominato sin dagli anni ‘80 del ‘900 da un manipolo di economisti assoldati dagli Stati Uniti per rafforzare il neoliberismo e censurare le sperimentazioni di economia solidale.
L’economia neoliberista è violenta perché si affianca al modello militare, guerrafondaia, con i fondi di investimento in imprese belliche. L’iperproduzione sottrae futuro e spinge gli stati verso regimi totalitari. Già Dolci affermava che le scienze economiche confezionate dall’economia del dominio fanno più ricchi i ricchi: è la loro vittoria nella lotta di classe.
L’economia nonviolenta, nell’autodeterminazione delle scelte economiche, aspira invece a costruire “la città terrestre”, ecosistema che contrappone allo sfruttamento la cogestione delle risorse naturali e umane dell’ambiente. Non iperproduzione, dunque, ma lotta allo spreco, diretta conseguenza del dominio. L’economia nonviolenta è educazione, maieutica, pianificazione organica, adattamento creativo, gestione compartecipativa, come testimoniano le esperienze di Dolci in Belice, nella costruzione della diga sullo Jato.
L’intervento di Charlie Barnao, docente di Scienze psicologiche, pedagogiche, dell’esercizio fisico e della formazione all’Università degli Studi di Palermo, sposta l’attenzione sulla guerra a partire dal genocidio del popolo palestinese trasmesso in mondovisione. Come è stato possibile?, si chiede.
Il modello militarista si è diffuso nella cultura comune attraverso lo sport, lo spettacolo, l’università, la scuola. In una sua ricerca autoetnografica, quella in cui il ricercatore è parte della cultura che studia, a partire dall’esperienza del servizio di leva nella Folgore, di cui tenne un diario, emerge la correlazione tra il modello addestrativo militare, con i suoi rituali formali e informali, e gli episodi di stragi e violenze in cui gli attori mettono in pratica le dinamiche subite, comprese quelle della tortura.
Tutti i militari vengono torturati per imparare a resistere alla tortura. Nella nostra società il militarismo è sia esplicito sia implicito. Esplicito nel finanziamento della guerra, nell’apparato di sicurezza per la gestione dell’ordine pubblico; ma è presente anche in una dimensione implicita: tutti i videogame, per esempio, si basano sul modello pedagogico di condizionamento, base dell’addestramento militare, tanto che le patologie correlate all’abuso di esposizione ai videogiochi sono le stesse da stress post-traumatico riscontrate nei reduci di guerra.
Esplicito nello sport, con le arti marziali miste; nelle scuole, in cui è sempre più pervasiva la presenza di militari in divisa nelle lezioni sul bullismo e sulle questioni di genere, e implicito nella pedagogia dell’umiliazione del ministro Valditara. Implicito ancora nelle politiche sociali, esemplare il rimpallo di responsabilità tra Marina Militare e Polizia a Cutro per il soccorso dei migranti.
Nelle università poi sono sempre più gli accordi con la Leonardo spa, industria bellica, mentre nel consiglio di amministrazione di Med’or compaiono diversi attuali rettori. Anche nel diritto, compare quello che è definito da Ferraioli “populismo penale” o giustizialismo, legato ormai alla cultura di destra come a quella di sinistra, e nel sistema penitenziario sono presenti sistemi di tortura fisica e psicologica propri dell’addestramento militare.
Erika Degortes, attualmente dottoranda presso l’Università di Roma “La sapienza” nel programma di Peace Studies, tra le fondatrici dell’istituto Galtung, ci dice che parlare di pace, parola fragile, abusata, logorata ma necessaria, significa parlare di giustizia ma anche di potere e contrappone alla complicità diffusa dell’università con la militarizzazione il confronto delle visioni pacifiste di Galtung e Dolci.
Il primo, in piena Guerra Fredda, propone di studiare la pace come una scienza, fondando a Oslo il primo istituto per la pace e non della pace, per conoscere i meccanismi della violenza e ripensare il conflitto, riconoscendo che la violenza del linguaggio e quella culturale ci rendono ammissibile la violenza strutturale di povertà e diseguaglianze. Pace non come esclusiva assenza di guerra ma progetto di trasformazione sociale, politica e culturale, duratura solo se basata su un sistema di giustizia sociale. Sua la formula matematica: pace uguale empatia per armonia su trauma per conflitto.
Ma la teoria di Galtung a Dolci non basta. Con lui si agisce nella pratica della “rivoluzione paziente”, dove la nonviolenza è azione creativa e organizzata che costruisce pace dal basso in processi di partecipazione ed educazione maieutica in cantieri collettivi di cambiamento. La pace è relazione, un modo diverso di stare al mondo basato sul riconoscimento dell’altro, unità di pensiero e azione liberi dal dominio.
Galtung supera il conflitto spostando il terreno dal campo di battaglia alla parola, disinnesca il dialogo. Dolci trasforma il conflitto in collaborazione, sostituisce alla competizione la cura. Così la pace, parola semplice e vertiginosa, si apprende, si coltiva, si moltiplica. È spessore politico, eresia civile. Presenza di umanità, non assenza di conflitto.
Nella seconda sessione, dopo alcuni interventi che testimoniano l’attenzione e l’ascolto partecipativo del pubblico, Clelia Bartoli, professora associata della Facoltà di Giurisprudenza di Palermo, ideatrice del Metodo dell’Altrimenti, invitandoci a non nascondere l’assurdo che è nel mondo diviso tra onnipotenti e impotenti, ci ricorda che il potere non è il dominio e che, di fronte al dolore inflitto senza minaccia di pena, possiamo scegliere di fermarci e riprenderci il potere, seppur non di onnipotenza, agendo nei limiti del possibile per salvare la nostra umanità. Così confronta le “istituzioni manipolative e conviviali” di IIlich con quelle “parassitarie e simbiotiche” di Dolci.
Le manipolative parassitarie sono giustificate dal fine, pace come sicurezza, in vista del quale chiedono affidamento totale ma in effetti, perseguendo il mantenimento del potere, rendono lo scopo irraggiungibile (è l’inganno del Leviatano). Il mezzo perverso perverte il fine, creando strutture di dipendenza che dividono elargitori e beneficiari. Questi ultimi, percependosi come impotenti, non si mettono in gioco restando dipendenti dagli elargitori. È il modello dell’assistenzialismo che spesso fa disimparare, come nel Leviatano, anche pratiche già esperite e in cui la codipendenza – anche il sovrano ha bisogno dei sudditi – è celata.
Le istituzioni conviviali e simbiotiche invece ragionano in termini di ciò che accade a cose e persone nel percorso, dando importanza al mezzo. Si determinano così strutture di potere dove l’interdipendenza è manifesta, attraversata dall’educazione maieutica dove tutti potenzialmente sanno. Un ruolo importante gioca il desiderio, spento dalle istituzioni manipolative parassitarie, che generano escalation della dipendenza aumentando le dosi, e mantenuto vivo invece da quelle conviviali simbiotiche durante il cammino nonostante gli ostacoli, quando si accetta la propria impotenza o fragilità senza restare inermi ma continuando a diffondere profumo come la ginestra di Leopardi.
Il maestro di strada Cesare Moreno porta la testimonianza dell’esperienza nei quartieri di Napoli in cui opera, vere e proprie zone di guerra dove non ha senso chiedersi chi ha cominciato nel reiterarsi della violenza da una famiglia all’altra al comando. Lì non ha senso abbracciare tutti i contendenti ma bisogna cominciare a farlo con gli impotenti.
Racconta così dell’abbraccio nelle esperienze di teatro nel riadattamento della Lisistrata, rivisitata, come colei che scioglie gli eserciti, da commedia misogina a dramma collettivo umano con la compartecipazione del pubblico, le donne dei tre quartieri a confronto con i tre clan in guerra. Negli spazi educativi si allentano le maglie della sofferenza e dell’odio per trovare spazi nuovi di pensiero anche dentro i conflitti.
Accade pure nella rivisitazione del Mito di Sisifo di Camus, dove, nel portare per le vie dei quartieri il masso dei dolori, si fa esperienza comune della sofferenza che, resa consapevole, viene lenita tanto da generare il Sisifo felice.
Sempre di educazione, stavolta nelle scuole, ci parla Annabella Coiro, attivista e formatrice della nonviolenza che, insieme a docenti, genitori, alunni e alunne e personale tutto delle scuole in cui opera, si chiede se e come l’educazione può trasformare un paradigma dicotomico patriarcale violento in un paradigma collaborativo.
Grazie alla rete Edumana e a tutte le associazioni che la sostengono, l’educazione alla pace non è più solo trasmissione di nozioni attraverso eventi straordinari o vago richiamo ad atti gentili ma pratica quotidiana di didattica e relazioni nonviolente. Pace positiva, dunque, tutta da inventare perché quasi sempre i e le docenti non sono state formate in contesti con pratiche nonviolente ma in contesti prevaricativi, giudicanti, punitivi, competitivi.
Bisogna uscire fuori dalla competizione, presente anche nello sport, dove c’è chi vince e chi perde ed è quindi necessario un allenamento mirato alla vittoria. Bisogna allora imparare ad allenarsi per collaborare, giocare in modo cooperativo, dove nessuno perde e tutti si divertono (Ubuntu).
Per questo bisogna, innanzi tutto, prendere consapevolezza della modalità competitiva e gerarchica della scuola dove bambini e bambine non possono decidere nemmeno lo spazio per il gioco. Si tratta di una vera rivoluzione nonviolenta, rispondendo a chi obietta che non esistono rivoluzioni non violente con la sperimentazione perché è per tentativi che si può fare quello che non è mai stato fatto.
Rompere la comfort zone, le barriere tra tutti gli attori del sistema scuola, trasformare il conflitto a partire dall’assunto che l’altro non ha nessun obbligo di fare quello che io ho pensato come giusto da fare.
La pedagogia della nonviolenza è apprendimento cooperativo anche nella didattica dei contenuti disciplinari per passare da insegnare la pace ad avere esperienza di pratiche di pace e nonviolenza in classe, soprattutto dove la scuola è l’unica chance per chi vive in contesti familiari e sociali violenti.
E allora decliniamola, questa pace, insieme a Giorgio Gallo, docente di Ricerca Operativa presso l’Università di Pisa, partendo dalla consapevolezza di vivere in tempo di guerra, nel fallimento della speranza di un’Europa fuori dalla guerra, dove sembra necessario ci siano più armi e più soldati. Il relatore ci invita a vivere questo tempo come occasione per capire, ad usare i termini – genocidio, per esempio – per capire, a partire dalle definizioni. Genocidio è svuotare un territorio uccidendo un popolo.
Passa poi alla definizione di pace. Pace come fine di una guerra con una vittoria. Pace, come quella di Trump, per imporre la violenza del controllo. Pace, pax romana, deserto. E poi pace come shalom, pienezza di vita per tutti e tutte, animali e nemici compresi.
La pace è diversa da cultura a cultura, è la libertà di vivere secondo ciò a cui si dà valore. Bisogna allora ampliare l’orizzonte dei diritti, non considerando universali solo quelli declinati dal mondo occidentale. È lo spazio dell’omnicrazia, di cui parlava Capitini, dove tutti gli attori sono capaci di partecipare al comando.
Questa pace perciò, lo shalom, non è realizzabile compiutamente nel tempo ma è un orizzonte verso cui tutti ci muoviamo. È il cammino. Pace come ponte di cui non è stato ancora costruito l’estremo opposto a quello in cui ci troviamo.
È la porta di Walter Benjamin, ebreo ateo materialista, da cui può entrare in qualunque momento il messia e il messia è chiunque di noi capace di mettersi dalla parte degli ultimi. È la pace di Toni Negri, quella delle moltitudini che nell’impero tolgono ai potenti il sostegno dal basso. A volte, al contrario dell’immobilismo di gattopardiana memoria, invece di cambiare tutto perché nulla cambi, si tratta di non cambiare nulla perché tutto cambi.
Esempio sono le prime comunità cristiane, assemblee di donne e uomini, che, nel cambiare, hanno trasformato la rappresentatività dal basso, al contrario delle assemblee greche, che erano di soli uomini.
Nel fare riferimento al conflitto israelo-palestinese, chiedendosi se si possano mettere sullo stesso piano aggressore e aggredito, bisogna riflettere sul fatto che non esistono solo gli stati ma anche le popolazioni ed è dalle loro esperienze dal basso, come quella dei combattenti per la pace, persone che si incontrano, che si deve imparare a risolvere in modo nonviolento i conflitti.
Ancora il tempo del dibattito è ricco di spunti, critiche costruttive, domande aperte alla riflessione comunitaria, almeno fino all’ora del pranzo condiviso, spazio conviviale della mensa comune.
Il prossimo appuntamento è per l’anno nuovo, quando entro il festival “Palpitare di nessi” si svolgerà il convegno “Legalità e disobbedienza”.
Pressenza.com,
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