lunedì, ottobre 06, 2025

La riforma voluta ed imposta dalla destra non migliora la giustizia, ma la piega!


di ENRICO ROSSI

Ieri, nell’aula della Camera, la gazzarra della destra: urla, slogan, una coreografia muscolare per una riforma che non migliora la giustizia, ma la piega. Si è festeggiata una rivincita, la materializzazione di un vecchio disegno della P2 di Gelli e poi di Berlusconi: la giustizia come variabile dipendente del potere esecutivo. 

Oggi quel disegno è tornato con nomi nuovi ma la stessa sostanza: separare le carriere per separare i pubblici ministeri dalla loro indipendenza. La separazione delle carriere, dietro la retorica della parità tra accusa e giudizio, produce come unico e sicuro effetto che i pubblici ministeri, l’accusa, escono dall’unico organo di autogoverno della magistratura e finiscono più vicino al governo di turno, il quale con il Ministeto della Giustizia definisce le priorità d’indagine e d’azione penale. 

Questo è ciò che solitamente accade in qualunque Paese dove esiste un assetto “separato”.

L’accusa dipende, direttamente o indirettamente, dal Guardasigilli o dall’esecutivo, le priorità investigative diventano una scelta politica. 

E la politica, si sa, tende a premiare i dossier utili e a dimenticare quelli scomodi: corruzione, crimini dei “colletti bianchi”, intrecci affaristici. 

Questo è il rischio strutturale a cui la riforma approvata ieri espone lo Stato di diritto.


C’è poi un secondo effetto, sociale e concreto: se il PM è trasformato in “parte” a tutti gli effetti, il processo diventa una prova di forza. 

Da una parte l’accusa, tendenzialmente più dipendente dal potere pubblico, e dall’altra la difesa che tende a valere quanto il portafoglio dell’imputato. 

Chi può pagare il grande studio legale compra tempo, competenze, reti; chi non può, si affida al gratuito patrocinio e alla fortuna. 

È l’opposto dell’eguaglianza davanti alla legge. 


L’Italia, invece, ha costruito – imperfettamente, certo – un modello diverso: l’art. 358 c.p.p. obbliga il pubblico ministero a cercare anche le prove a favore dell’indagato. Il PM non è l’avvocato dell’accusa, è un organo di giustizia: deve promuovere la verità, non vincere una causa.

Se davvero volessimo “riformare”, dovremmo partire da qui: applicare e rafforzare l’art. 358, obbligare i pubblici ministeri ad essere veramente coloro che non collezionano caparbiamente le accuse ma cercano la verità e quindi “svolgono accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta a indagini”.

Poi si dovrebbe investire su formazione, tempi dei processi, organizzazione degli uffici, digitalizzazione che funziona, filtro serio delle notizie di reato, responsabilità disciplinare per chi abusa, riservatezza nella fase delle indagini e quindi tutela effettiva dei cittadini indagati. 


Non c’è bisogno di smantellare l’equilibrio costituzionale per correggere le storture reali del funzionamento della Giustizia.

Separare le carriere non accelera i processi, non riduce gli errori, non alza la qualità delle indagini.


Il punto politico è tutto qui: la riforma non nasce per curare i mali cronici della giustizia, ma per riallineare il sistema a una logica di governo più indirizzata dall’esecutivo.

Se la si combina con il premierato -l’altro grande sogno della destra italiana- l’effetto è dirompente: un capo del governo più forte e una giustizia meno autonoma.


A primavera dell’anno prossimo ci sarà il referendum sulla riforma e sarà una battaglia è civile di grande portata: difendere l’indipendenza del pubblico ministero significa difendere il cittadino comune, l’eguaglianza dei diritti, la capacità dello Stato di guardare in faccia anche il potere. 

Contrastiamo questa riforma con il voto di primavera: scegliamo una giustizia che cerca la verità, una giustizia più veloce e più giusta, certo, ma sempre libera.


In Costituente si fece una scelta netta, figlia dell’antifascismo: togliere alla politica la leva sulla giustizia. 

I Padri costituenti vollero una magistratura autogovernata, legata alla legalità e all’obbligatorietà dell’azione penale, e non un “potere” bensì un “ordine” autonomo e indipendente che svolge una funzione di giustizia. Questo è il senso profondo dell’impianto costituzionale: sottrarre la giustizia alla convenienza del momento e ancorarla alla legge uguale per tutti.


I cittadini potranno capire facilmente che questa riforma non fa i loro interessi ma solo quelli dei potenti e del potere politico e reagire sconfiggendo nelle urne il disegno della destra.

Facebook, 19/9/2025

Nessun commento: