GAETANO MANNINA
L’analisi di Giusto Catania coglie un punto essenziale: la scuola resta, forse, l’ultima istituzione repubblicana che ogni giorno prova a costruire anticorpi contro la cultura mafiosa. È un presidio che tiene accesa la memoria civile e lavora per distinguere tra legalità autentica e legalità di facciata.
Tuttavia, se vogliamo davvero incidere sulla realtà, occorre riconoscere che la scuola, da sola, non basta. Oggi il problema non è solo “insegnare la legalità”, ma trovare un linguaggio che arrivi a chi vive in contesti dove la legalità non è mai stata un’esperienza concreta.
Nei quartieri periferici, la fascinazione per modelli criminali non nasce da una fiction o da un film, ma dal vuoto lasciato dalle istituzioni, dagli adulti e da un sistema educativo che parla una lingua diversa da quella dei ragazzi.
La televisione o le serie come Gomorra non creano la devianza, semmai le danno una grammatica. Il problema è che spesso la scuola, il teatro o i cortei civili parlano linguaggi simbolici che non vengono tradotti in esperienze quotidiane.
Per questo servirebbe una pedagogia della realtà, non solo della legalità.
Portare il teatro dentro Zen, non Zen al teatro; far parlare ex detenuti invece di esperti; costruire laboratori misti tra studenti dei licei e ragazzi delle periferie; riconoscere come valore — anche economico — la conoscenza che i giovani dei quartieri hanno del proprio territorio.
Sono gesti piccoli, ma concreti, che possono riaprire un dialogo là dove la scuola, per quanto animata dalle migliori intenzioni, non riesce più a farsi ascoltare.
In sintesi, l’impegno della scuola siciliana è prezioso, ma va connesso a processi culturali più larghi, capaci di tradurre l’antimafia dai palchi e dai convegni alle strade, alle palestre, ai cortili.
Solo quando la parola “legalità” sarà riconosciuta come qualcosa che appartiene alla vita di tutti i giorni — e non come un linguaggio di altri — potremo dire di avere davvero costruito una cultura antimafiosa condivisa.
Gaetano Mannina


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