mercoledì, dicembre 10, 2025

UN ALTRO PUNTO DI VISTA. La tragedia di Corleone e la vittima divenuta invisibile

I funerali di Lucia Pecoraro e Giusi Milone

L'INTERVENTO DI PATRIZIA GARIFFO

Ieri, a Corleone, si sono celebrati i funerali di Lucia Pecoraro, la donna che ha ucciso la figlia Giusy Milone, autistica, prima di togliersi la vita. Scrivere questo articolo non è semplice, ma sento il dovere di farlo: sia come giornalista, sia come persona con disabilità. 

Non affronterò il dolore, autentico e devastante, di una madre anziana rimasta vedova da poco, né la cronica assenza delle istituzioni o le leggi inefficaci che riguardano i caregiver. Voglio parlare di Giusy. Della vittima. Perché è doveroso chiamare le cose con il loro nome, soprattutto quando il rischio è produrre una narrazione distorta di un fatto drammatico che ha due protagoniste, e una delle due non ha avuto alcuna possibilità di scelta. In questi giorni, Giusy è scomparsa quasi del tutto dal racconto pubblico.

Quando è stata nominata, lo si è fatto solo per ricordare la fatica reale vissuta dalla sua famiglia. Una vicenda dolorosa, certo, ma che non può trasformarsi nella cornice che attenua un gesto irreparabile. Si continua a parlare di contesto, di disperazione, di solitudine: elementi veri, legittimi da comprendere. Ma non fino al punto da relativizzare l'uccisione di una donna che, fino a prova contraria, voleva vivere. Conosco situazioni simili, per esperienza personale e per tutte le storie che negli anni mi sono state raccontate. Proprio per questo non giudico chi ha compiuto il gesto. Ma è necessario guardare in faccia un problema: ogni volta che in una vicenda di cronaca entra in gioco la disabilità, la narrazione devia. Il delitto perde la sua natura e diventa un gesto "inevitabile", quasi dettato dalle circostanze, come se il contesto potesse trasformarsi in un'attenuante emotiva. La realtà, invece, è tragica nella sua semplicità: una persona è stata uccisa. Tutto il resto è rumore, dolore comprensibile, ma anche pericoloso, perché influenza l'interpretazione collettiva di ciò che è accaduto. Questa narrazione finisce per trasmettere un messaggio distorto: chi si prende cura di qualcuno, vivendo condizioni spesso insostenibili, può essere in qualche modo "scusato" se pone fine alla vita della persona che assiste. In questo modo la vittima scompare, come se non fosse mai esistita. O peggio: come se la sua esistenza avesse senso e valore solo finché chi se ne occupa riesce a reggere fisicamente e mentalmente questo ruolo. Quando la forza si esaurisce, la sua morte diventa quasi accettabile. È un'idea che va spezzata, non normalizzata.

la Repubblica Palermo, 10 dicembre 2025

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