Alfredo Facchini 
Gian Maria Volonté
Sei dicembre. Quel giorno del 1994, a Florina, mentre la troupe di Lo sguardo di Ulisse cercava la luce sulle montagne macedoni, il corpo di Gian Maria Volonté cedette.
Per chi scrive, Volonté non è un semplice attore. È un comunista al di sopra di ogni sospetto, nel senso più radicale: non per pedigree, ma per una pratica dello sguardo. Lo dice lui stesso, senza mezzi termini: ogni film è politico. E se non lo sembra, è solo perché qualcuno ha deciso di edulcorarlo.
A sedici anni è già sulla strada con I carri di Tespi, immerso nel teatro popolare che porta la parola là dove il potere non guarda. Diplomato nel ’57 all’Accademia, attraversa i classici senza trattarli da reliquie: Shakespeare, Goldoni, i repertori italiani. Ma è quando incontra Sacco e Vanzetti che la sua recitazione si salda con una postura precisa: mettere il proprio corpo nel punto dove la storia sanguina.
Gli anni Sessanta lo portano davanti alla macchina da presa, e lì si compie qualcosa di raro: un interprete che non delega mai agli altri il senso politico dell’opera. I titoli sono una rassegna di ferite aperte: Un uomo da bruciare, Il terrorista, A ciascuno il suo, I sette fratelli Cervi, Banditi a Milano.
E persino nei western di Leone, dove gli tocca il ruolo del cattivo, Volonté non è mai solo un ingranaggio del genere: è una mina nella narrazione. Un volto che disturba, che graffia, che non si può ridurre alla caricatura del bandito.
Poi arriva Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. La maschera del funzionario di polizia diventa un pugno nello stomaco alla cosiddetta democrazia italiana: il dominio, il sadismo, la violenza di Stato esposti con una chiarezza che nessun editoriale è mai riuscito a raggiungere. È il punto esatto dove la recitazione di Volonté tocca il potere con le mani nude.
I film successivi sono le tappe di un viaggio dentro le contraddizioni del Novecento: Uomini contro, La classe operaia va in paradiso, Il caso Mattei, Sbatti il mostro in prima pagina, Il sospetto, Todo modo, Io ho paura, Cristo si è fermato a Eboli, Ogro.
Una galleria di personaggi che non cercano simpatia, ma precisione politica.
Montaldo racconta di una comparsa in lacrime sul set di Sacco e Vanzetti. «Me commuove», sussurra. E quando dice al regista «tu guarda dove mettere la cinepresa, al personaggio penso io», non è arroganza: è responsabilità. Quella di chi sa che l’arte, se non incide, è un rumore di fondo.
Lavora ovunque: Francia, Messico, Svizzera. A Cannes, nel 1983, vince per La morte di Mario Ricci. Un premio che gli riconosce ciò che in Italia molti hanno accettato sempre con mezzo timore: il fatto che Volonté non si limitava a interpretare. Interveniva.
Negli ultimi anni continua a cercare storie che bruciano: Il caso Moro, Cronaca di una morte annunciata, Porte aperte, Una storia semplice. Nessuna pacificazione, nessuna resa.
E lui, infine, la frase che basta a racchiuderlo: «O si esprimono le strutture conservatrici della società e si diventa robot nelle mani del potere, oppure si tenta un rapporto rivoluzionario fra arte e vita».
Non un motto. Una linea di condotta.
Il 6 dicembre, ogni anno, ricorda questo: che Gian Maria Volonté non è stato un interprete del suo tempo, ma un contrappeso. Un uomo che ha trasformato il cinema in un luogo dove la verità non chiede permesso.
Alfredo Facchini
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