Federica Pennelli
L'emergenza. «Non avendo altri posti dove andare, molti vengono lasciati in ospedale». Spesso si colpevolizzano cittadini e cittadine, indicandoli come responsabili di accessi con codici non gravi.
Si discute molto di accessi impropri ai pronto soccorso (ps) delle nostre città. Spesso si colpevolizzano cittadini e cittadine, indicandoli come responsabili di accessi con codici non gravi in un luogo deputato alla medicina d'urgenza. Ma è una leggerezza delle persone che porta i presidi dell'emergenza a intasarsi? La risposta è no e, come spesso accade, bisogna cercare la complessità dietro dichiarazioni semplicistiche e dati parziali.
«Fermo restando che nella serie storica degli anni 2021/2024 non si rilevano particolari cambiamenti nella proporzione di codici bianchi sul totale degli accessi in pronto soccorso – afferma la dottoressa Maria Pia Randazzo, che dirige l'Ufficio statistica e flussi informativi dell'Agenzia regionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) – declinare tale dato a livello regionale può comportare errori di valutazione se non si tiene in debita considerazione le scelte organizzative e procedurali che influenzano le dinamiche degli accessi a bassa complessità dei sistemi sanitari regionali».
E infatti i problemi ci sono e derivano dalla mancanza di medicina di prossimità: secondo la Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg), 5 milioni di persone non hanno medico di base e gli stessi medici sono sempre meno e sempre più oberati.
A questo si aggiunge il problema delle Case di comunità (inaugurate e non funzionanti), la povertà crescente che porta alla rinuncia alle cure, la migrazione sanitaria, l'invecchiamento della popolazione, l'isolamento sociale e l'aumento di problematiche sociali e psicologiche. Un mix pericoloso che comporta, in tutta Italia, un carico di lavoro fortissimo sulle spalle di mediche e medici di Ps.
Solitudine e patologie
«Arrivano pazienti che non hanno avuto sostegno e monitoraggio continuo sul territorio, per malattie come ipertensione o diabete, che se scarsamente controllate possono portare a complicazioni importanti. Molti pazienti vedono nel Ps una sorta di via d'uscita: cercano di curare la loro patologia ma nel momento in cui, ad esempio, devono fare un esame strumentale e la lista d'attesa è di 1 anno, allora vedono in noi la scorciatoia per eseguire quell'esame in poco tempo».
A parlare è il dottor Valerio Grandis, medico specializzando in Medicina d'urgenza/emergenza a Bologna, che racconta di «una grande disperazione delle persone che si riversano nei Ps e che poi creano sovraffollamento anche nei reparti di medicina interna».
Il medico racconta che giorni fa ha seguito un signore di 60 anni, vedovo. Aveva perso il lavoro e si era presentato per un diabete fuori controllo, con conseguenze importanti a livello fisico: «Aveva una neuropatia – quando i nervi periferici dei piedi e delle gambe iniziano a non funzionare più, quindi si perde sensibilità e funzionalità motoria – e non riuscendo a deambulare una delle figlie lo ha portato in Ps. Un classico esempio di mancata presa in carico della medicina territoriale che arriva qui da noi».
Grandis ricorda: «Sarebbe dovuto essere preso in carico globalmente sul territorio prima di arrivare a questo livello, e invece non è così». L'altro grande problema di cui si parla poco, ma che determina tantissimi accessi al pronto soccorso, sono i problemi sociali: «Solitudine e disagio socio economico sono un terreno fertile per un connubio di problemi che sfociano anche in patologie importanti».
Le persone si ritrovano sole, senza una rete, «e vengono lasciate in ospedale o in reparto perché non hanno altro posto dove andare». I reparti di lunga degenza, infatti, «sono pieni di persone che a volte non si riescono a dimettere perché fuori non c'è nulla, e allora bisogna cercare una struttura che li possa assistere, attivando i servizi sociali».
Codici o persone
«Nessuno vuole fare la specialistica in medicina di emergenza/urgenza, i concorsi per lavorare da noi in Ps rimangono vacanti». A parlare è Andrea, medico di un noto pronto soccorso romano e attivista dell'Ambulatorio Popolare Roma Est, per cui utilizziamo un nome di fantasia perché, per lui e altri colleghi, parlare con la stampa equivale a poter incorrere in pesanti sanzioni lavorative: «C'è una grande pressione e le narrazioni sui Ps vengono fatte sempre da politici o dai direttori sanitari con velleità carrieristiche».
Chi parla con la stampa, infatti, viene sospeso e licenziato: «Solo a Roma, negli ultimi tre anni, tre colleghi sono stati puniti per aver pubblicamente parlato dei problemi che si vivevano all'interno dell'ospedale a nome di un sindacato di base». Oltre a questo si aggiunge il tema di un lavoro «usurante e faticoso, con dei livelli di stress insopportabili».
Il problema del sovraffollamento dei Ps in Lazio, per Andrea, non è dettato principalmente dall'accesso dei codici non gravi: «È un problema che va letto nel macro problema della carenza della salute territoriale. Io leggo i codici non gravi come codici non ascoltati, con condizioni che non sarebbero d'urgenza ma lo diventano perché nessuno ascolta e prende in carico queste persone».
Ci dovrebbero essere le Case di comunità «ma non ci sono davvero, e molti medici di base lavorano su appuntamenti a lungo termine». Mancano anche i taxi sanitari: «Se una persona anziana abita in periferia, deve andare ad una visita e non ha familiari che la possano accompagnare, salta la visita», si aggrava e finisce in Ps.
C'è poi il dato della prevenzione che latita: le malattie croniche non riescono ad essere prevenute e poi curate adeguatamente, e ciò comporta l'aumento degli accessi: «Una o due persone al giorno arrivano da noi con la necrosi del piede a causa del diabete non curato, nel nostro territorio queste situazioni stanno aumentando vertiginosamente».
A questo si aggiungono le lunghe liste d'attesa: «Se una persona attende 1 anno e mezzo per un'operazione all'ernia inguinale, sicuramente farà più accessi da noi» ma anche l'alto tasso di problematiche psichiche e di tossicodipendenza.
C'è una popolazione che invecchia e un Ssn che non viene adeguatamente finanziato: «Quotidianamente ascoltiamo storie di figli che non hanno soldi per una badante e portano da noi i genitori con demenza, non hanno altro posto dove andare. Come facciamo a dire che queste persone non ci devono venire se sul territorio nessuno ti aiuta e non hai soldi?».
Medicina del territorio
Il dottor Renato Costa è responsabile salute della Cgil Sicilia. Durante la pandemia è stato commissario Covid per la città metropolitana di Palermo ed è presidente della Rete ambulatori popolari. La sua esperienza gli permette di avere uno sguardo privilegiato rispetto a molti aspetti legati alla crisi del sistema di salute pubblica. Racconta che la caratteristica del sistema sanitario della regione Sicilia «è avere il medico di medicina generale, poi il vuoto cosmico e poi il pronto soccorso».
Ciò significa che «non esiste la medicina del territorio. Non ci sono altri modi per avere prestazioni o essere presi in carico». Ci sarebbe bisogno di un "filtro territoriale" che preveda anche l'assistenza domiciliare integrata, «quindi la presa in carico del paziente a casa con la medicina di prossimità, come facevamo durante il Covid, ma da noi questo diritto è negato».
In Sicilia, i Ps sono schiacciati da due componenti: «La prima è che almeno il 75 per cento di chi vi accede non ha urgenze indifferibili», in seconda battuta «non si riescono a smaltire i pazienti perché non ci sono abbastanza posti letto; con attese che durano anche 24 ore».
C'è poi il tema della povertà sanitaria: se il paziente si reca in Ps, sa che potrà essere curato anche se poi non riuscirà a pagare il ticket che gli verrà consegnato a fine prestazione. Costa racconta: «Abbiamo una popolazione povera, che non ha soldi per pagarsi cure private; se non ci fossero gli ambulatori popolari queste persone non saprebbero dove andare. Ci troviamo in una situazione in cui dovremmo aprirne altri».
Le persone, infatti, non riescono più a curarsi, «a pagare il ticket e a superare le liste d'attesa. C'è una crisi sociale. Chi fa loro la spesa? Chi effettua il prelievo a domicilio? Qui l'assistenza domiciliare la fanno gli ambulatori popolari, perché l'alternativa è la delega ai privati con un sistema che va a implodere». (1-continua)
Federica Pennelli
Domani.it, 27 dicembre 2025

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