Ieri, 16 dicembre, Giuliana Saladino, grande giornalista de L'Ora e poi grande scrittrice, avrebbe compiuto cento anni: era nata a Palermo il 16 dicembre 1925, morì di tumore nel 1999. La ricordiamo riproponendo questo ritratto di Alberto Bartolo Varsalona, fondamentalmente incentrato sulla sua opera più nota.
di ALBERTO BARTOLO VARSALONA
Giuliana Saladino è stata parte dei “mostri sacri” che hanno animato, con rigore e grande intelligenza, una delle vette culturali di una città-caos come Palermo, ovvero l’irripetibile stagione de “L’Ora” diretta da Vittorio Nisticò, gli “anni ruggenti” che vanno dal ‘54 al ‘75. Saladino, in una redazione composita e instancabile, spicca per lo spessore culturale, l’indipendenza del pensiero, la penna «nervosa, spezzata, personalissima» (1) che contraddistingue le indimenticabili inchieste sulle donne siciliane e sugli emigrati in Germania, le quali rappresentano, con la loro caustica vivacità d’indagine, tappe fondamentali del percorso intellettuale di una giornalista che, come suggerisce Terranova, «ha sempre messo la Sicilia e Palermo al centro di ogni sua interrogazione e nel farne scrittura non li ha ammorbiditi né trasfigurati», muovendosi in un sud «aspro ma non senza speranza» (2). È questo il retroterra, umano e ideologico, della Saladino narratrice, e della sua opera più nota.
«Romanzo civile» è un titolo curioso per quello che in prima battuta si presenta come un memoir, come «il diario di una morte». Col termine “romanzo” Saladino sembra prendere immediatamente le distanze da tutti i cliché melensi, da tutte quelle articolazioni della biografia – o autobiografia – canonizzata, palesando fin dal titolo la disobbedienza formale della sua operazione, imprevedibile miscela di registri, lente narrativa che in un andirivieni tra privato e pubblico, cerca in ogni modo di sovrapporre le due dimensioni. Se il sostantivo romanzo lascia già interdetto il lettore contemporaneo, l’aggettivo “civile” lo spiazza doppiamente – rarissimo vocabolo della sua contemporaneità – tanto più se appare nel titolo di una biografia, spazio per eccellenza di ogni paralisi intimistica, di ogni apnea psichica – teatro privilegiato degli scrittori che a forza di guardare il proprio ombelico, s’incurvano la schiena.
Saladino, invece, ha occhi solo per il mondo: solo per l’Altro.
Se si volesse azzardare una definizione per un’opera letteraria che sfugge, come tutte le grandi letture, ad ogni catalogazione, potrebbe essere quella di memoir disobbediente: decentrato e vastissimo. Decentrato perché il recupero memoriale è mosso dalla diagnosi di tumore che lascia pochi mesi di vita a Lillo Roxas, dirigente del Pci e amico di lunga data dell’autrice. Le dinamiche di comprensione del sé autoriale hanno origine sempre in uno spazio esterno divenuto instabile, si ramificano a partire da una figura intermediaria messa in crisi, in questo caso lo stesso Roxas, sorta di vivo daimon socratico (le citazioni al Fedone e all’Apologia s’infittiscono sul finale). Vastissimo perché, se il primo capitolo «Nissenopazzo» orbita tutt’intorno al «più ironico, disilluso e divertente» (3) Rocchi, nomignolo per Roxas, dal secondo capitolo «Nel grande e glorioso» – titolo che fa riferimento al Partito Comunista -, il recupero memoriale inizia a verticalizzarsi, arricchendosi di nuovi toni, tagli e oggetti, stratificandosi tra i vissuti comuni, le speranze – utopie – di una generazione.
«Oltre al precipitare degli avvenimenti sul fronte pubblico, con le coscienze civiche ridotte a poltiglia, sul fronte personale l’effetto morte dell’amico produceva guasti in piccole dosi e a lunga scadenza: ma proprio i guasti produssero gli anticorpi, e gli anticorpi una reazione benefica che mi ha permesso, dando un po’ di tempo al tempo, di mettere insieme questo diario di una morte con cenni di biografia e autobiografia» (4)
Proprio nei «guasti» – lacune aperte sull’esistenza – spesso si costruisce il vero sapere, in grado di modellare le coscienze, lungo gli strappi sorgono le opere per il lettore che rifiuta ogni indifferenza, si anima la scrittura mossa da estreme esigenze, crisi profonde – nella loro accezione greca di “punto di svolta”. Lo sforzo intellettuale è sacrificio coagulato, faticosa lotta contro sé stessi, contro la storia e contro la parola, e per una siciliana significa anche, forse soprattutto, resistere al «vuoto di rapporto col mondo», ai «perché, perché devo, ma chi me lo fa fare, ma a che serve», o meglio ancora significa abbattere quel «solido impasto di ignavia e arroganza, sfiducia e sospetto, narcisistica autosufficienza e vittimismo», che intravede lo «spreco» in ogni sussulto di vita – l’abisso in ogni guizzo d’ingegno.
Saladino sfugge a ogni paralizzante «impasto», costruendo uno spazio formale di dialogo tra il cemento ideale del “L’Ora” di Nisticò, fatto di «tensione morale, coraggio, curiosità intellettuale, rigore professionale» (5), e la sua grande cultura letteraria, la sua vena narrativa limpidissima e impetuosa. La scrittrice a «lassa e pigghia» sembra dominare i registri lessicalmente e sintatticamente più distanti, dall’indagine sociologica alla polemica, dall’epistola al dialogo, e «Romanzo civile» con lo scorrere dei capitoli assurge, ora a brevi scatti ora a larghi slanci, ad immenso affresco di storia pubblica e privata, in cui l’occupazione delle terre agrigentine e nissene s’incrocia alla rievocazione nostalgica di cene “simposiali”, l’indignazione per il sacco di Palermo alle crisi di mezza età, il timore del compromesso storico, in una città in cui la DC era Lima e Ciancimino, al soggiorno svizzero per le cure di Roxas.
Di riga in riga, lo sguardo pare estendersi, sempre orientato dall’occhio della «supercronista attenta», in grado di individuare «protagonisti, dettagli e retroscena [di un] fatto» (6), intransigente innanzitutto con sé stessa, modellando sorta di vortice misurato, cristallino turbine di storie – memorie. E solo nel capitolo finale, «La morte», si chiude questa calibrata quanto nervosa struttura ad anello, solo nelle ultime pagine si realizza quella piena, fertilissima, sovrapposizione tra privato e pubblico di cui abbiamo parlato, quando la fine – scandalo amplificato nella terra del Sole – in un colpo di coda si fa origine, avvio di uno scatto etico vivificante, «benefico», che è il romanzo stesso, la scrittura – gravida d’ombre – che illumina un’amicizia, una città; quindi il mondo.
Rocchi, dopo avere «riflettuto su tutto», si suicida tentando di preservare, con tutte le sue energie, uno stato d’imperturbabilità da filosofo classico, somministrandosi una «cicuta» di barbiturici, a seguito dell’ultima serata con gli amici di una vita, del tutto ignari di quello che accadrà da lì a poche ore. «Doveva avere concluso che l’ultimo gesto di amicizia fosse quello di non farci capire nulla, e noi nulla capimmo» scrive Saladino, l’unica, seppure ignara come tutti gli altri, a cui la morte dell’amico viene preannunciata come «un fulmine, dopo il quale non sei più come prima», in una «frazione di secondo» durante la quale si apre una breccia nella calcolata serenità di Rocchi, immerso in una «solitudine siderale» , già «lontassimo, assorto»: una laica epifania, una «porta» dietro cui si è «sbirciato l’abisso». In un gesto, nella circoscritta perdita di compostezza – inaudita per Rocchi – l’occhio di falco della narratrice pre-vede l’istante esatto, la «morte senza disperazione», ultima affermazione di sé, e della propria libertà a negare una lenta, indegna agonia. La sua «composta e seria e dignitosa» uscita di scena, altro non è che un’entrata, questa volta dalle quinte della memoria, lì dove si gioca la partita dei valori, delle cose in cui credere per sentirsi vivi. Lo «Specchio luminoso», come viene chiamato l’amico perduto nell’introduzione, diventa uno specchio ustorio della ragione, in quanto riflette con potenza irradiata la crisi in atto – fende, taglia coi suoi raggi ogni oscurità, umana debolezza – e col suo fascio benefico sostanzia una certa invulnerabilità di spirito – laico e civile -, proclamando la «supremazia della mente» e la «fiducia nell’uomo» alla narratrice, «vecchia signora»
«Mars e io, due ritrosie che si sommano, tendevamo a farne un fatto privato e invece diventò molto pubblico, come era giusto che fosse e come in fondo sarebbe piaciuto al nostro amico. I giornali lo commemorano come politico, come editore, come velista, ma soprattutto come uomo» (7)
Rocchi è tante cose al tempo stesso, e vuole essere ricordato nella sua circolarità, pluralità che lo rende uomo attivo: democraticamente non conosce soluzione di continuità tra i confini dell’individuo e quelli della comunità. Ma è anche il rappresentante di una generazione sconfitta, di una borghesia intellettuale che ha creduto ciecamente in una «rivoluzione onesta» per una terra che a tratti – forse sempre – pare irredimibile.
Nel 1983 Romanzo civile avrà una circolazione insolita, da libro di memorie cinquecentesco, destinato a una cerchia ristrettissima di amici e parenti, e verrà pubblicato da Sellerio solo nel 2000, a seguito della morte della scrittrice, sempre contraria a una larga pubblicazione. Questa sorta di riserbo, di violento pudore, pare testimoniarci la materia scottante dell’opera, che è vita segnata su carta, percorso tondo e totale, e al tempo stesso responsabilità sempre insoddisfatta, senso di profondo rispetto quando è meglio non dire – scrivere – niente, se tocca farlo male. Per la fortuna di noi lettori Saladino, invece, ha lasciato un atipico gioiello che brilla di luce propria «tra gli scogli e le secche del merdaio palermitano», una perla d’illuminismo moderno, quindi turbato e disilluso: caposaldo per un quadro culturale e letterario di un «insediamento» come Palermo, perché come «diceva Rocchi […] città è cosa diversa».
Note:
1) S. Nicosia, “Memorie di un lettore”, in M. Figurelli e F. Nicastro (a cura di), Era “L’Ora”: il giornale che fece storia e scuola, XL, Roma 2011, p. 15
2) https://www.ilfoglio.it/.../un-romanzo-civile-di-sicilia.../
3) M. Sorgi, “Nota”, in G. Saladino, Romanzo civile, Sellerio, Palermo 2000, p. 9
4) G. Saladino, Romanzo civile, Sellerio, Palermo 2000, p. 18
5) F. Nicastro, “L’artigiano del giornalismo moderno”, in M. Figurelli e F. Nicastro (a cura di), Era “L’Ora”: il giornale che fece storia e scuola, XL, Roma 2011, p. 7
6) M. Sorgi, “Nota”, in G. Saladino, Romanzo civile, Sellerio, Palermo 2000, p. 10
7) G. Saladino, Romanzo civile, Sellerio, Palermo 2000, p. 164
Nelle foto: la copertina di "Romanzo Civile"; Giuliana Saladino; Alberto Bartolo Varsalona
L’Ora, edizione straordinaria, 16/12/25

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