martedì, dicembre 09, 2025

UNA MOSTRA PER SCAFIDI ALL’ARS, L’AMICA DI NICOLA, FORMATO 6x6



È stata inaugurata lunedì 1 dicembre, nella sala degli Armigeri di Palazzo dei Normanni, la mostra fotografica "Cronache di sguardi siciliani", dedicata all'opera del fotoreporter palermitano Nicola Scafidi. 

L'esposizione, organizzata su iniziativa della Commissione di vigilanza sulla Biblioteca dell'Ars, è un omaggio nel centesimo anniversario della sua nascita (che sarebbe caduto il 2 dicembre 2025) e raccoglie 25 scatti che ripercorrono oltre mezzo secolo di storia sociale, culturale e politica della Sicilia. La mostra, a cura della figlia del fotografo, Angela, è stata ideata per celebrare l'eredità di un artista i cui ritratti, come ebbe a dire il giornalista Mario Genco, "hanno un'anima". Gli scatti selezionati compongono un affresco umano vibrante e contrastante: dai bambini del terremoto del Belice che sorridevano tra le macerie, alle donne la cui dignità e fierezza traspare in ogni condizione sociale, fino agli uomini con i volti segnati dalla fatica, immortalati nei campi o nei ritrovi di paese

UNA MOSTRA PER SCAFIDI ALL’ARS

L’AMICA DI NICOLA, FORMATO 6x6

di Daniele Billitteri

Ogni volta che penso a Nicola Scafidi, perché magari mi sto chiedendo se è sua la foto che sto guardando, mi do quasi sempre una risposta immediata. E non è solo una questione di stile, di cultura dell’immagine.

C’è in quelle foto una profondità quasi congenita al punto che pensi che una macchina fotografica, per quanto gioiello tecnologico, nelle sue mani prendeva vita e diventava un’amica, una complice, certe volte perfino un’amante. Sia che fosse la quotidiana Rolley a pozzetto con pellicola 6x6 da 100 ASA o 21 DIN, sia che fosse una titolata Nikon 35 millimetri.  

Era in mano sua che obiettivi, filtri, diaframmi, tempi di apertura diventavano come i cinque sensi di un essere umano: vedere, gustare, toccare, sentire, fiutare. E in ogni scatto c’era un senso, un discorso, un’appartenenza, un affetto, una condivisione che univa l’al di qua e l’al di là rispetto all’obiettivo.

Ho conosciuto Nicola all’inizio degli anni Settanta quando ero giovane cronista de L’Ora, indimenticabile nave scuola per tanti “sucanchiostro”. Il giornale si affidava all’agenzia Scafidi dove lavoravano i tre fratelli. Nicola era, diciamo così, l’Occhio. Agostino stava allo studio di via Stabile accanto al cinema Modernissimo e si occupava  di sviluppo e stampa. Franco era il più giovane. Poi c’erano “i ragazzi” Pietro Lo Bianco e Gigi Petyx. Senza nulla togliere alle eccellenze che a metà di quel decennio avrebbero sostituito  gli Scafidi a L’Ora, per noi ragazzini quasi coi calzoni corti quella gente era una leggenda e se la nostra formazione ha messo insieme qualche merito è anche a loro che si deve perché quando uscivamo per un servizio loro erano per noi l’altra metà del cielo, il parafulmine che l’esperienza li aveva fatti diventare.

Nicola aveva la flessibilità dell’artista. L’artigiano eccelle ma fa sempre la stessa cosa. Nicola faceva tutto e lo faceva da artista. Ho guardato le foto delle pop star di Palermo Pop 70 accanto a quelle delle madri salmodianti sul cadavere del figlio ammazzato. Ho visto bambini col grembiulino e il fiocco delle elementari e bambini coi calzoncini, una bretella i piedi nudi e le magliette a strisce che furono la divisa  dei moti dell’8 luglio 1960. Ho visto i treni carichi di emigranti partire dalla Stazione Centrale per scoprire che esistevano davvero le valigie di cartone attaccate con lo spago e le bisacce col caciocavallo, uova dure, un forma di pane e una bottiglia di vino. E imparai presto come fare per non perdermi dettagli: bastava guardare dove stava puntando l’obiettivo Nicola.

In ogni scatto ci metteva del suo. Te ne accorgevi accanto a suo fratello Agostino quando questi metteva il negativo nell’ingranditore per stampare. C’era tutto un gioco di mani che creava ombre sapienti per dare vita alla foto e allora ti accorgevi com’era fatto l’occhio di Nicola, quanta arte c’era nel cogliere il contesto, nel carpire uno sguardo, un’espressione, un sorriso, una  minna mostrata per errore o un lampo di dolore di chi sta litigando con Dio. Come dicono i Pooh.

Nicola cantava. Andate e ritorni da un servizio erano un festival. Sapeva tutte le canzoni della mala. “Passeggiando di un ponticello, di vicino di casa maia, nel caffè di santa lucia una battuiglia mi fermò…”. Oppure: “Hanno a passari sti vintinov’anni, unnici misi e 29 iorna. Cu rici ca lui carciru è  galera? A mia mi pari na villegiatura”. Era un cantastorie  senza cartello e senza chitarra. Io avrei dovuto già pernsare a quale sarebbe stato l’attacco del mio articolo ma quel canto faceva di me un piccolo Ulisse attaccato al sedile della Mini Minor, incapace di non farmi distrarre da quella sirena.

Quanti giorni, quante storie. Poi ho pensato a questo legame tra Nicola e la sua macchina fotografiate a quanto, a quel tempo, sia stata davvero un’union e civile che ha dato voce e vista a una città spesso ammutolita e miope, un film da vedere un fotogramma alla volta. In quel film ci sono anche io perché, con tutto quello che Nicola mi ha mostrato e spiegato, ho capito che stava scattando  i fotogrammi di un bel pezzo della mia vita. Grazie Nicola.

L’Ora, edizione straordinaria, 5/12/2025

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