di CONCITA DE GREGORIO
“Non è solo una missione per Gaza È una missione per l’umanità Per aiutare un popolo allo stremo e quel che resta di noi, esseri umani”
Era dai tempi del G8 di Genova che non vedevo Genova così. Aperta, ridente, coraggiosa e resistente, solidale.
Ma — lo dico per chi c’era e chi non c’era, per chi ricorda e per chi non sa — la memoria speculare non corre dalla mattanza, naturalmente: non dal giorno che per il successivo quarto di secolo ha affogato nel sangue le speranze, che ha congelato nella rabbia e nella disillusione le generazioni da lì a venire.
No, dico dal primo giorno di quel lontano luglio 2001: il corteo pacifico a cui parteciparono, partecipammo, tutti. Tutte le finestre erano aperte, allora, le anziane si affacciavano ai balconi e salutavano.
I bambini correvano, i portuali sfilavano insieme ai loro figli, alle figlie e tutti cantavano, tutti promettevano che non ci sarebbero più stati muri ma ponti, mare aperto, il futuro sarebbe stato più libero e uguale.
C’erano un’allegria e un’energia, quel giorno, una risolutezza, una fiducia nell’umanità che ho continuato a cercare ovunque, per anni, poi ho smesso. Sabato scorso sono tornata. Timidamente, con prudenza, mi sono affacciata al quartier generale di Music for peace dove, avevo letto, si stavano raccogliendo i viveri da mandare a Gaza con le barche di Global Sumud Flotilla. I viveri da mandare nella Striscia di Gaza per un popolo che sta morendo di fame — letteralmente — sotto i nostri occhi di occidentali sazi e dissetati da bevande energetiche e tisane diuretiche. La sede di Music for peace è sotto un cavalcavia, è una rotonda in uno svincolo stradale dalle parti del porto. Era mezzogiorno di sabato. La sera ci sarebbe stata la fiaccolata e poi le navi, quattro, sarebbero partite.
Io non so dirvi, adesso, la commozione e l’emozione di vedere persone anziane, bambini per mano ai genitori con le buste della spesa, decine e decine di volontari dividere la pasta dallo zucchero, i pelati dalla farina. Una signora con una canottiera rosa — quanti anni ha, signora? 82 — spostare scatoloni su un muletto. Un bambino di 8 anni — come ti chiami? Martino — sorvegliare che la sua lista scritta a pennarello, la sua spesa fatta la mattina fosse imbarcata davvero. E artisti, attivisti, studenti, librai, artigiani, lavoratori del porto, estetiste, parrucchieri, avvocati, preti, amministratori, gente. Una moltitudine, una catena di montaggio a classificare e dividere, a imballare. Quasi trecento tonnellate di cibo: ne erano attese, nelle migliori previsioni, quaranta.
Tante le quattro navi di Genova ne possono trasportare.
Posso dire, questo sì, degli abbracci e delle lacrime: li ho visti. Ho visto che sempre, tutti, incontrandosi si abbracciavano e piangevano.
Persone adulte, persone così tanto diverse: piangevano ridendo. È stato come tornare a quel giorno di ventiquattro anni fa. È stato come ripartire da lì. Del resto. Qualcuno non ha mai smesso di resistere nell’intenzione. Stefano Rebora e Valentina Gallo, genitori del bambino Athos, non hanno mai smesso di esserci, per chi voleva. Nemmeno nei giorni peggiori, i più cupi.
Hanno fondato Music for peace, un’associazione umanitaria che ha organizzato cinquantaquattro missioni di aiuto in Paesi in guerra, mentre intanto il nostro, di Paese, i governi del nostro Paese si mostravano avidi, corrotti, indifferenti e cinici. A sinistra come a destra. A sinistra dispiaceva di più, sorprendeva di più, poi ha vinto la destra: deve essere stato anche per questo. Per la sorpresa e la disillusione di chi non trovava più casa. Per lo sfinimento delle illusioni deluse. Insomma.
Qualcuno è rimasto sempre lì. E poi è passato il tempo, e poi dopo ventiquattro anni siamo arrivati all’altro ieri.
Sarebbe bello che oggi chi ha posizioni precostituite, figlie di identità e di pregiudizio — cioè il giudizio che si dà prima di conoscere ciò di cui si parla, prima di immedesimarsi nell’altro e di provare a capire. Sarebbe bello che chi si schiera su fronti opposti a priori, perché “guarda chi c’è a bordo, quella la conosco, quello non mi piace, sono pagliacciate, sono gente che vuole solo essere notata un momento, vuole stare sulla cresta dell’onda”. Ecco. Sarebbe bello, sarebbe quasi un miracolo che chi emette sentenze da casa si mettesse in ascolto, provasse a guardare.
Guardatele, le immagini della moltitudine che con le fiaccole ha percorso i cavalcavia del porto di Genova sabato sera. I parroci, le autorità ecclesiastiche hanno benedetto le navi che partono. Siete cattolici? Allora fateci caso. La sindaca, Silvia Salis, ha detto che la città medagliad’oro della Resistenza sta con chi resiste. Voi, invece? Non è solo una missione per Gaza, quella di Global Sumud Flotilla. È una missione per l’umanità. Per aiutare un popolo allo stremo e quel che resta di noi, esseri umani. Sumud è una parola araba che significa resistenza. Significa tenere duro — grosso modo — non piegarsi, andare avanti.
Siamo di fronte alla più grande missione umanitaria civile della storia contemporanea.
Sono partite da Barcellona e da Genova, salpano da quarantaquattro Paesi del mondo barche che portano cibo a una popolazione civile sotto mortale assedio. La politica, i governi non sono riusciti a pretendere l’elementare: un corridoio umanitario che li faccia uscire dall’esplicito progetto di sterminio di Netanyahu, dalle suescelte scellerate e fortissimamente contestate dal suo stesso popolo. Una missione internazionale, civile, che fa dal basso quello che nessuno fa dall’alto: una missione in supplenza di governi pavidi, compromessi. Il nostro è fra questi. In passato l’esercito israeliano ha aperto il fuoco sui soccorritori intenzionati a portare aiuto a persone che, solo per un caso, non siete voi. La tutela, l’incolumità di chi naviga dipende da noi.
Dall’attenzione che ci sarà su questa missione. Dal vostro, dal nostro sguardo costante. Sparano su un ospedale, sulle persone in fila per l’acqua, poi dicono scusate abbiamo sbagliato. Ma non possono sparare su una flotta di barche in arrivo da tutto il mondo, cariche di pomodori e farina.
Non dovrebbero, almeno, ma dipende da noi. Da ciascuno di voi. Da quanto stiamo lì a guardare: che arrivino incolumi.
Buon vento, Flotilla. Speriamo bene. È nelle vostre mani anche la nostra coscienza. È un carico enorme, insieme allo zucchero e al tonno. Avete a bordo il senso dell’umanità. Buona musica, buona fortuna. Non fatevi fermare, non fermate la speranza: noi vi seguiamo. Noi siamo qui.
La repubblica, 1 settembre 2025

1 commento:
Peccato non avere alcuni decenni in meno. Vi seguo con estremo interesse e tifo per voi! Buon vento!
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