giovedì, luglio 17, 2025

IL RACCONTO. Gli eroi uccisi nella città indifferente


Nell’estate del 1985 i kalashnikov mafiosi non diedero scampo al vicequestore e al commissario “cacciatore di boss”. 
Oggi non ci sono spari nelle strade ma c’è una violenza sorda, sporca e disordinata Adesso si corrompe nei corridoi ma il fuoco che divora è lo stesso, quello della resa morale. 

di LIRIO ABBATE
Palermo bruciava quarant’anni fa. Bruciava per il sole implacabile di luglio, per il sangue che scorreva sulle sue strade, per il piombo che uccideva servitori dello Stato in pieno giorno. Bruciava per l’indifferenza, per la paura, per l’odore acre della resa. Era il 1985 e, in otto giorni, la città perse due dei suoi migliori uomini: il commissario Beppe Montana, assassinato sul molo di Porticello, e il vicequestore Ninni Cassarà, crivellato dai colpi di kalashnikov sotto casa insieme al giovane agente Roberto Antiochia.
Fu un’aggressione militare. Duecento colpi sparati per spegnere Cassarà, la mente più affilata della Squadra mobile di Palermo. Montana era l’incubo dei latitanti, un investigatore instancabile, capace di stanare boss sotto terra e sotto cielo. In quell’estate di 40 anni fa c’è il mare quieto che incornicia la morte del “ cacciatore di boss” ucciso sotto lo sguardo della fidanzata, e ci sono le case di via Croce Rossa che nascondono spietati tiratori.

L’agguato che diventa teatro di una carneficina ragionata. Cassarà muore tra le braccia della moglie; Montana resta solo sul cemento bagnato di mare e sangue mentre la fidanzata terrorizzata corre e chiede aiuto urlando, ma la folla che c’era prima nei pressi del molo si era diradata; era dunque corsa verso il bar di fronte per telefonare al pronto soccorso, ma il gestore non glielo ha permesso, dicendole che l’apparecchio era guasto. Mentre attraversava la strada una macchina che procedeva a forte velocità, l’aveva sfiorata.
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Come si può restare indifferenti di fronte al dolore devastante che spacca il cuore a queste donne? Donne che hanno visto, con occhi pieni d’amore e terrore, i loro uomini strappati alla vita da mani mafiose. Uccisi sotto i loro sguardi, lasciati soli in un sangue che gridava giustizia. Come si può, davanti a tanto strazio, voltarsi dall’altra parte? Palermo 40 anni fa lo ha fatto.
Due uomini, due amici, due investigatori stimati da Falcone e Borsellino, due condanne eseguite con la ferocia dell’odio e la freddezza della strategia. Non fu solo mafia. Fu guerra.
Le immagini dei funerali di questi poliziotti, nel 1985, sono fotografie di una resa collettiva. Pochi cittadini, molte autorità. La città è assente. Palermo è in ferie, dicono. Ma la verità è che ha paura. Preferisce il buio al coraggio. Preferisce ignorare, rimuovere, addomesticare la tragedia.
Nessuna folla, nessuna rivolta. Nessuno è sceso in piazza. La paura è una nebbia che ottunde le coscienze, e in quegli anni, in quella Palermo, la paura ha un solo nome: mafia.
Palermo era spettatrice, non protagonista. E Cosa nostra colpiva con la sicurezza di chi sa che non ci sarà reazione. Fu l’estate dei tradimenti, delle fughe, dei trasferimenti dei migliori investigatori anche fra i carabinieri più esposti. Fu l’estate in cui l’antimafia restò sola.
Fu un noir. Solo morti, paura e silenzio.
Palermo taceva.
Leonardo Sciascia osservando quei funerali commentò da par suo, tagliente come un bisturi: «Ci si indigna solo quando ci scappa il morto». Giorgio Bocca è stato ancora più diretto: «Il barista che nega il telefono alla fidanzata di Montana è l’immagine più vera di Palermo». Non un atto di codardia, ma di coabitazione. Il segno di un patto non scritto.
A 40 anni di distanza, oggi Palermo brucia in un altro modo. Non ci sono spari nelle strade, ma c’è una violenza sorda, sporca, disordinata. Turisti rapinati nei vicoli, colpiti con bottiglie, inseguiti fino ai portoni dei B& B. Cittadini che non si sentono più sicuri. Una città che pare di nuovo inerme, stanca, confusa, spesso connivente. Però è la città con la maggiore percentuale di ritrovamenti “ casuali” da parte dei proprietari di auto o moto rubate e tutto fa pensare che le vittime soccombono e pagano il riscatto senza denunciare pur di avere indietro ciò che gli è stato rubato. Non si può quindi puntare il dito solo sulle forze dell’ordine, qui occorre guardare alla coscienza di ogni cittadino. È una città che sembra aver perso, ancora una volta, l’orientamento morale.
L’escalation di aggressioni ha fatto saltare il banco. Le istituzioni invocano più forze dell’ordine. Ma non è solo con la repressione che si vince. E intanto una città che avevaimparato a raccontarsi come capitale dell’antimafia, si scopre fragile, esposta, ancora divisa.
Lo si è visto anche il 23 maggio scorso, nell’anniversario della strage di Capaci. Polemiche, spaccature, ego, rivalità tra chi dovrebbe stare dalla stessa parte. Alfredo Morvillo, su Repubblica, ha posto la domanda che brucia: « Siamo davvero tutti dalla stessa parte? » . E se lo siamo, perché questa continua rappresentazione di divisioni, queste prime donne, questi giochi di potere?
L’antimafia ha bisogno di un fronte unito. Di credibilità. Di coerenza. Perché c’è una parte di Palermo, quella grigia, distratta, perbene ma silenziosa, che potrebbe essere coinvolta, se solo vedesse un esempio credibile. Ma oggi, anche dentro l’antimafia, si gioca a rimpiattino con la memoria. Ma c’è anche una borghesia mafiosa che continua a vivere.
Il giudice Alfonso Sabella intervistato da Gianfranco D’Anna ha detto chiaramente: «Temo un ritorno al passato. Come ai tempi di Lima, di Ciancimino. C’è una mafia che vuole ricomprare lo Stato » . Non serve più uccidere: basta pagare. Una mazzetta costa meno di un omicidio. E non fa rumore. Ma Sabella aggiunge anche altro, con amarezza e lucidità: oggi, paradossalmente, si attacca chi ha combattuto davvero la mafia.
Si riscrivono le storie, si mettono in discussione magistrati che hanno pagato sulla propria pelle l’impegnocivile e giudiziario. Si costruiscono polemiche ad arte, si gettano sospetti, si cerca di demolire chi per anni ha rappresentato una trincea contro Cosa nostra. È come se l’antimafia desse fastidio, se il passato imbarazzasse chi oggi ha fatto carriera nei palazzi. I dossier, i processi, le sentenze: tutto svanisce sotto il peso di narrazioni nuove, più accomodanti.
Ma attenzione: la mafia non ha perso il suo dna violento. Si è solo trasformata. In giacca e cravatta, certo, ma sempre la stessa radice. E se deve usare i suoi arsenali non si fa scrupoli.
Però servono persone nella pubblica amministrazione capaci, coerenti. Che non si affidino solo a proclami, ma agiscano. Che sappiano distinguere il bene dal male, anche dentro le loro fila. Anche dentro le stanze più protette. Uomini credibili.
E invece cosa succede? La questione morale torna centrale. Il presidente dell’Assemblea regionale, Gaetano Galvagno, il pupillo della seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa, è indagato per un sistema di corruzione. Anche l’assessora al Turismo del governo Schifani è indagata per corruzione. Per entrambi non è mafia, certo. Ma è puzza. Una puzza che racconta un sistema malato, fatto di favori, intrallazzi, potere come moneta. Un sistema che non è cambiato. Solo nascosto meglio. La cronaca giudiziaria non è mai la questione centrale.
È l’odore. È ciò che precede il reato, che racconta il metodo prima ancora dei reati. E l’odore che sale oggi dai palazzi di Palermo non è più solo quello del compromesso. È l’olezzo di un affarismo sfacciato, dell’arroganza di chi si sente protetto da un patriottismo usato come scudo, come licenza, come alternativa al Codice penale.
Questa non è più l’estate delle stragi. Ma è ancora l’estate dell’indifferenza. La Palermo del 1985 bruciava di piombo e sangue, oggi brucia di silenzi e di occhi abbassati. Allora si sparava per le strade, oggi si corrompe nei corridoi. Ma il fuoco che divora la città è lo stesso: è il fuoco della resa morale.
Montana e Cassarà furono uccisi non solo dai kalashnikov mafiosi, ma dal silenzio che li circondava. Morirono nella solitudine di una città che preferiva non vedere. Oggi Palermo non ha più il rumore delle armi, ma ha il silenzio complice dell’indifferenza. C’è chi subisce un furto e paga il riscatto pur di non denunciare. C’è chi sa, e non parla. C’è chi rappresenta le istituzioni e finisce sotto inchiesta non per mafia, ma per corruzione. Non è solo una questione di legalità, è una questione di moralità, di esempio, di decenza pubblica.
Palermo non è sconfitta, ma è stanca. Non è collusa, ma è rassegnata. La zona grigia è più vasta, più opaca, più rispettabile. La borghesia mafiosa c’è, si muove nei salotti, si nutre di favori e silenzi. E chi dovrebbe indicare la via, spesso la smarrisce nel tornaconto personale.
Se non torniamo a ricordare davvero chi erano Montana e Cassarà, Falcone e Borsellino e tutte le altre vittime, se non torniamo a essere degni della loro lezione di coraggio e onestà, Palermo continuerà a bruciare. Non di fuoco, ma di indifferenza. E sarà un rogo più lento, ma non meno devastante.

La Repubblica Palermo, 17/7/2025

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