martedì, luglio 22, 2025

Il banchetto scelto dal presidente e lo sfregio all’icona di Meloni


di LIRIO ABATE

Le due facce dell’Isola fra il ricordo di via d’Amelio e la festa di San Michele di Ganzeria 

San Michele di Ganzaria, provincia di Catania. Qui è l’ombelico della Sicilia. Non Palermo, non via D’Amelio. È qui, tra le vigne ordinate della famiglia Cuffaro e i tavoli imbanditi per duemila invitati, che batte il cuore vero - impunito, sfrontato, orgoglioso - della Sicilia che conta. Quella che comanda. Quella che, da sempre, si fa beffe del pudore civile e delle liturgie repubblicane. È qui che si è consumata la scena madre di un teatro grottesco, dove la Sicilia si è mostrata per quella che è, senza trucchi e senza vergogna: irriducibile nella sua ipocrisia, irriformabile nella sua morale, irredimibile nella sua politica. 


Il 19 luglio, mentre l’Italia intera si stringe nel lutto rituale per la strage di via D’Amelio, mentre la memoria pubblica prova a tenere vivo il sacrificio di Paolo Borsellino, nella campagna catanese si celebrano le nozze del figlio di Totò Cuffaro. Una data scelta con cura, non a caso. Perché in Sicilia non si comunica con le parole: si parla coi gesti, si urla coi silenzi, si governa coi simboli. 

Quel giorno, il 19 luglio, diventa allora spartiacque e dichiarazione d’intenti: da una parte l’Italia che ricorda, dall’altra quella che festeggia; da una parte le istituzioni raccolte davanti alla lapide di un magistrato ucciso dalla mafia, dall’altra un presidente dell’Assemblea Regionale, Gaetano Galvagno, che salta le commemorazioni per inginocchiarsi, metaforicamente, ma non troppo, al cospetto del redivivo Cuffaro, condannato per favoreggiamento a Cosa nostra. 

Galvagno non è un cittadino qualunque. È il volto istituzionale più alto dell’Assemblea siciliana. È il rappresentante di quel partito, Fratelli d’Italia, che fa della legalità la propria narrazione muscolare e dell’icona Borsellino una bandiera identitaria. Ma quando il dovere chiama, Galvagno non solo volta le spalle al dovere istituzionale e alla memoria delle vittime, ma si schiera apertamente a fianco del condannato. Non arrossisce, non si ritrae, non si dimette. È indagato per corruzione, ma resta saldo al suo posto. Anzi, si mostra. Ostenta. Dimostra che, in Sicilia, il potere si misura dalla capacità di restare in piedi anche quando la morale cade in ginocchio. 

Non è solo uno scandalo di opportunità. È un tradimento culturale, civile, morale. È un segnale inequivocabile, e qui, in Sicilia, i segnali non si equivocano mai. Si capiscono. Si leggono. Si decifrano. Il messaggio è chiaro: la stagione delle stragi è finita, i morti sono nel cassetto, si può tornare a casa Cuffaro, si può rifare famiglia, potere, consenso. Anche la toga della figlia dell’ex governatore, oggi magistrata, aiuta. Una toga che stona, in questo giorno, in questa festa. Che domanda silenziosamente: cosa avrà pensato lei, in quel 19 luglio? Che giustizia sogna, da quale parte della storia guarda? 

Nel teatro di San Michele di Ganzaria, c’è tutto: la Sicilia della mala politica, quella del favoreggiamento istituzionale, quella della memoria selettiva e della corruzione sguaiata. C’è un’élite che si autoassolve, si abbraccia, si perpetua. È un sistema che si tramanda, nonostante le condanne, le inchieste, gli arresti, le stragi. È la politica di laboratorio, che in Sicilia ha sempre avuto qualcosa di radioattivo: contamina, devasta, muta. 

È per questo che la Sicilia è irredimibile. Perché anche quando prova a salvarsi, si autoassolve. Perché anche quando promette giustizia, cerca vendetta. Perché anche quando si dice riformata, resta fedele ai suoi antichi padrini. 

Leonardo Sciascia lo sapeva: «La Sicilia è irredimibile. Ma bisogna continuare a lottare, a pensare, ad agire come se non lo fosse». È una preghiera laica, un testamento disperato. Ma oggi, oggi più che mai, sembra una resa, se guardiamo a San Michele di Ganzaria, a quella lunga tavolata dove il potere siede comodo, mentre il paese si inginocchia davanti a una targa. 

E allora eccola la risposta: questa terra è irredimibile perché si è convinta che lo sia. Perché ha fatto della contraddizione una virtù, dell’ambiguità un codice d’onore. Perché ha scelto il vino di Cuffaro al sangue di Borsellino. E ha deciso che si può festeggiare anche il 19 luglio. Basta voler dimenticare. Basta volerci credere.

La Repubblica, 21/7/2025

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