di SERGIO BARALDI
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È morto Alberto Stabile, giornalista siciliano con cui ho lavorato a L’Ora di Palermo, poi passato a la Repubblica di Eugenio Scalfari, dove fu inviato e corrispondente all’estero in Medio Oriente. Quando arrivai a L’Ora di Palermo, io ero un giovane cronista, ma Alberto, che aveva qualche anno in più, era già un giornalista affermato, un professionista riconosciuto. Originario di Trapani, ma palermitano per scelta, Alberto era allora un cronista giudiziario rispettato.
Per me, che venivo da una famiglia settentrionale, cresciuto in Sicilia perché mio padre vi lavorava, essere un giornalista de L’Ora era un modo per restituire alla Sicilia quello che, accogliendomi, mi aveva donato. Alberto era un collega più maturo, più esperto, più bravo, radicato nel territorio. Seguivo con interesse il suo lavoro,
consapevole che avrei potuto imparare da lui e capire meglio la realtà sociale siciliana negli anni dei delitti di mafia eccellenti. È strano come la scomparsa di Alberto mi abbia fatto rievocare quel tempo lontano attraverso gli sguardi di colleghi che non ci sono più. Ma che non ho dimenticato: penso allo sguardo severo, concentrato di Alberto, a quello buono, accogliente di Nino Sofia, o a quello aperto, interessato, solidale di Giacomino Galante.Nella stanza della redazione de L’Ora c’era come una gerarchia non ufficiale, in cui i giornalisti più esperti e affermati erano il punto di riferimento di noi più giovani. Nonostante fossi l’ultimo arrivato in quel tempo, Alberto e Nino mi prendevano sotto braccio e mi ammettevano alle loro intense discussioni sulla mafia: disegnavano le strategie, la mappa interna di potere in cui la figura di Totò Riina cominciava ad emergere come il boss incontrastato, andando su e giù sotto i portici di via Ruggero Settimo.
Se Alberto allora era il cronista giudiziario di punta, Nino Sofia era il cronista di nera principe. Li ascoltavo tentare le analisi dei delitti, scambiarsi pareri, costruire possibili geografie per orientarsi. Alberto aveva quello sguardo in cui la gentilezza si mescolava alla dura verità che cercava di scoprire senza esitazioni, senza cedimenti. Nino invece sembrava osservare e tentare di comprendere quell’intreccio di violenza feroce senza perdere la dolcezza dei suoi occhi. Così questo strano modo di ricordare Alberto e altri, mi aiuta a descrivere la stanza del giornale come la stanza degli sguardi, che ci scambiavamo durante il lavoro, accompagnati da battute scherzose, dal ticchettio delle macchine da scrivere, dagli squilli del telefono, sguardi di uomini e donne differenti. Il giornale che con coraggio raccontava la mafia e i suoi orrori rivelava in quella stanza essere a sua volta un insieme di storie, uniche, preziose dei suoi giornalisti, che echeggiavano tra le pareti disadorne. Forse è questo il significato delle redazioni come “comunità interpretative”: eravamo un gruppo di storie che raccontavano la storia di un terribile male sociale.
Certo non immaginavo che proprio io, ammesso chissà perché alle discussioni di Alberto e Nino, un giorno avrei ricordato cosa hanno rappresentato. Alberto poi andò a Roma, ebbe una seconda importante carriera. Anch’io andai a Roma ma a “Paese Sera” e poi anch’io entrai nel gruppo di Repubblica. Con Alberto non abbiamo più lavorato insieme. Ma credo che Alberto, fosse a Gerusalemme o a Beirut o a New York, non abbia mai davvero lasciato quella scrivania, in quella stanza, in quel giornale. Forse perché, caro Alberto, quella stanza era il tuo posto nel mondo.
L’Ora, edizione straordinaria, 9 luglio 2025

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