Andrea Merlo
Si scrive supply chain, si legge sfruttamento. Sempre più spesso la frammentazione dei cicli produttivi, le esternalizzazioni e i subappalti rispondono a precise strategie che le imprese utilizzano per scrollarsi di dosso ogni responsabilità nei confronti dei lavoratori, sottoponendoli impunemente a gravi forme di sopraffazione economica e trattamentale.Un sistema collaudato, che consente di comprimere il costo della manodopera fino al 40-50% e ha assunto un carattere strutturale del nostro tessuto produttivo, trasversale a tutti i settori. Importanti studi affermano addirittura che l’economia del nostro Paese rischierebbe il collasso se non si avvalesse di una vera e propria «infrastruttura schiavistica» che coinvolge lungo la Penisola circa tre milioni di persone. Tuttavia, pensare di poter contrastare un fenomeno di tal portata limitandosi a dispiegare i tradizionali strumenti repressivi per assicurare alle patrie galere i caporali del terzo millennio è una pia illusione,
se non addirittura un ipocrita sotterfugio per non misurarsi veramente con l’urgenza della questione. Certo, gli sfruttatori meritano i rigori della legge, ma accontentarsi della loro punizione risponde più alla logica del capro espiatorio che all’obiettivo di scardinare il sistema dello sfruttamento, obiettivo che richiede invece la capacità di incidere sul modo in cui le aziende organizzano la produzione.Fra le strategie di intervento finora sperimentate, quella probabilmente che oggi dà i suoi frutti migliori è quella messa a punto dalla procura di Milano attraverso gli strumenti dell’amministrazione giudiziaria e del «sistema 231». L’idea di base è quella di guidare le imprese nella riorganizzazione del ciclo produttivo in modo da escludere, anche lungo la filiera, il ricorso al lavoro sfruttato. Ai provvedimenti draconiani che non di rado finirebbero per compromettere la stessa sopravvivenza delle imprese con gravi conseguenze anche sul versante occupazionale si preferisce, dunque, un approccio più morbido che premia quelle attività economiche che si mostrano capaci di ripensare il proprio modello di business. I casi in cui si è sperimentata questa strategia di intervento sono ormai numerosi, distribuiti nei più diversi settori produttivi: dal primo caso di amministrazione giudiziaria disposta nei confronti di Uber eats, il tribunale ambrosiano si è interessato ai colossi della logistica, a supermercati del calibro di Esselunga, per finire di recente alle grandi case di moda come Alviero Martini, Dior, Armani e Valentino. I risultati si toccano con mano. Come ha nei giorni scorsi ricordato il pubblico ministero milanese Paolo Storari, ospite del dipartimento Dems dell’Università di Palermo durante la presentazione del VII Rapporto Agromafie e caporalato (curato dalla Fondazione Placido Rizzotto e dalla Flai-Cgil), l’intervento del Tribunale ha portato al recupero alle casse dell’erario di oltre 600 milioni di euro e alla regolarizzazione di cinquantamila lavoratori.
C’è a questo punto da domandarsi perché, nonostante gli indiscutibili risultati ottenuti, questa strategia resti ancora pionieristica e non trovi applicazione all’infuori del distretto milanese. Probabilmente le ragioni sono diverse, non ultima l’assenza di sezioni specializzate presso le procure per contrastare questo tipo di reati. Pesa probabilmente anche, come registrava lo stesso Storari, la mancanza di un movimento d’opinione ampio e trasversale che sappia tenere alta l’attenzione sul tema dello sfruttamento lavorativo, così come è avvenuto con riferimento ad altre emergenze criminali come la mafia, la corruzione o la violenza di genere.
Andrea Merlo
GdS, 31 maggio 225
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