martedì, giugno 10, 2025

Mattarella, l’impronta dei killer: “Oggi può rivelarci un Dna”


di SALVO PALAZZOLO

La traccia sulla 127 degli assassini del presidente della Regione fu giudicata non utilizzabile. La pista mafia-eversione nera

PALERMO - Dopo 45 anni di misteri, depistaggi e prove scomparse, la speranza di trovare la verità attorno all’omicidio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella si aggrappa adesso a un’impronta. Anzi, a un frammento di impronta: è un reperto che la polizia scientifica ritrovò sullo sportello della Fiat 127 abbandonata dai killer, quel 6 gennaio 1980, poco distante dal luogo del delitto. 

«È una traccia inutilizzabile», scrissero all’epoca gli investigatori. E, oggi, gli esperti confermano. Ma le nuove tecnologie consentono di andare oltre, da quell’impronta si potrebbe estrarre il Dna.

E i magistrati della procura guidata da Maurizio de Lucia vogliono provarci. Per questo hanno notificato ai due indagati, i boss Nino Madonia e Giuseppe Lucchese, l’avviso che il 12 giugno verranno nominati alcuni esperti del Gabinetto regionale di polizia scientifica. E anche gli indagati potranno nominare dei consulenti di parte, perché si trattadi un atto cosiddetto irripetibile.

Le indagini di questi ultimi mesi, condotte dalla procuratrice aggiunta Marzia Sabella e dalla sostituta Francesca Dessì, stanno verificando l’ipotesi che i due mafiosi ergastolani possano aver fatto parte del commando che ha assassinato Piersanti Mattarella. Ma il ruolo di Madonia e Lucchese sembra essere solo un segmento di un’inchiesta più ampia, che continua a tenere ben presente le indagini dell’allora giudice istruttore Giovanni Falcone, sul possibile intreccio fra mafia ed eversione di destra dietro al delitto del presidente della Regione che voleva cambiare la politica e la Sicilia. I killer neri Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, finiti sotto processo negli anni Novanta, sono stati assolti in tutti e tre i gradi di giudizio. Ma le relazioni fra mafia ed eversione di destra continuano ad essere materia di indagine.
Nel 1980, Madonia aveva 28 anni, Lucchese 22. Il primo era il figlio di don Ciccio, rampollo di una delle famiglie di mafia più potenti, quella di Resuttana; Lucchese, era l’astro nascente della famiglia di Ciaculli. Tutti e due erano fedelissimi di Totò Riina, il capo dei capi, per gli incarichi più riservati. Madonia e Lucchese spararono insieme per uccidere il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie e l’agente di scorta, il 3 settembre 1982. Ora sono in carcere, e continuano a conservare tanti segreti. Qualche tempo fa, i pm di Palermo sono andati a interrogare Nino Madonia, ma lui ha negato persino di essere un mafioso. Eppure, Riina diceva un gran bene di lui, e non sospettava di essere intercettato in carcere mentre parlava col compagno dell’ora d’aria: «Nino è la persona più pericolosa che esista». Parole che non sono soltanto folclore criminale. Riina diceva pure: «Nino e i tre fratelli erano cristiani riservati». Nel gergo mafioso, vuole dire una cosa sola: mafiosi per le missioni più delicate e nascoste. Riservati, come gli altri componenti del commando che uccise Piersanti Mattarella.
Ora si lavora sull’impronta ritrovata sullo sportello del guidatore. E intanto si continua a cercare un guanto dimenticato d ai killer nell’auto: all’epoca fu sequestrato, poi però scomparve. Davvero questa non è solo una storia di mafia.

La Repubblica Palermo, 10/6/2025

Nessun commento: