martedì, giugno 03, 2025

Giovedì 5 giugno a Palermo la presentazione del libro di Roberto Lopes e Nicola Figlia sulla sapienza dei proverbi. Pubblichiamo la prefazione di Pippo Oddo


di PIPPO ODDO

ll filosofo e il pittore tornano a operare insieme con icastica capacità rappresentativa sul patrimonio paremiologico di Mezzojuso, paesino siculo albanese dove nessuno parla più arbëreshe. E troveranno il necessario ascolto per l’originalità dell’approccio che già li caratterizzava nell’ormai lontano 2006, quando l’Associazione Culturale “Prospettive” di Mezzojuso pubblicò il loro libro Tu ha ragiuni, ma  tortu unn’haiu. Discorsi scritti e disegnati su alcuni proverbi siciliani

Nel frattempo,quell’approccio si è arricchito di più mature argomentazioni e mezzi espressivi già padroneggiati da uno degli autori. Quello di Roberto Lopes (classe 1958) e di Nicola Figlia (nato nel 1950) non è il solo modo di studiare i proverbi e i motti proverbialisiciliani. Non lo è neanche sotto il sole della Brigna, la pittoresca collina che sovrasta Mezzojuso e alimenta la genialità dei suoi abitanti. Fino a pochi anni nessuno si sarebbe mai sognato che una parola estrapolata da un proverbio ormai desueto – ‘Un è viddanucu viddanu nasci, ma cu si pasci di viddanaria – avesse potuto dare la stura a un racconto autobiografico, come quello di Nicolò Perniciaro, Arte e dialoghi di Viddanaria a Mezzojuso, che ha attirato l’attenzione del grande filologo, glottologo e accademico della Crusca Giovanni Ruffino,

al punto da inserirvi una breve nota in cui si può leggere: «Il titolo è quanto mai appropriato […]. E non esito ad includere questo ampio affresco del mondo contadino di Mezzojuso, tra i contributi migliori sinora prodotti, a partire da Rocco Scotellaro e Antonio Castelli».

I proverbi sono frutto di sedimentazione linguistica: molti sono tratti dalla letteratura classica, dalla Bibbia e dai Padri della chiesa. Altri sono figli della cultura e della filosofia della societàche li esprime. L’interesse per lo studio deproverbi in Sicilia si sviluppa nell’ambito della lessicografia tra il ‘700 e l’800, anche se nasce un paio di secoli prima a scopi pedagogici o come esercitazione poetica. Tra il 1751-1754 il Padre Michele Del Bono pubblica il Dizionario siciliano, italiano latino in tre volumi, per «agevolare […] l’uso di quelle due lingue Toscana, e Latina, che per loro eleganza, dolcezza e leggiadria, con qualsivoglia delle morte o vive favelle, di parità, se non forse anche di maggioranza, contender la possono». Il siciliano del colto gesuitanota il filologo Salvatore Trovato, «non è considerato come un diasistema nel quale lo spazio geografico è portatore di variazioni, ma come un sistema monolitico che coincide sostanzialmente col siciliano letterario e, tutt’al più, col siciliano delle classi colte ed elevate di Palermo». Lo stesso compilatore informa chl’operascarta le voci «del dialetto proprio e particolare di ciascuna Terra, e Città, e molto più della feccia del volgo di Sicilia». Nel decennio 1785-1795 l’abbate Michele Pasqualino da Palermo, nobile baresemembro dell’Accademia della Crusca (fondata a Firenze nel 1585), pubblica i cinque volumi del Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, «per far cosa grata a Filologi, e contentare i Letterati Palermitani». L’opera accoglie e amplia il patrimonio paremiologico messo insieme da Padre Michele Del Bono ed esclude ogni parola delle minoranze linguistichearbëreshe e gallo-italiche.

Nell’800 lo sguardo paremiologico va oltre le mura di Palermo e i vecchi confini socialiTutto comincia con la pubblicazione, nel 1868, del Nuovo vocabolario Siciliano-Italianodi Antonino Traina, per rafforzare «il sentimento nazionale diffondendo per tutte le classi, nelle famiglie, dovunque nel vivere domestico quella lingua che, insieme alle sventure, noi abbiamo avuto unico legame fra le sparse membra della patria». Fatta l’Italia, «bisogna parlar tutti la stessa lingua». Per tale ragione, «il Vocabolario Siciliano non deve restringersi alla sola capitale, se vuol esser Siciliano […]. Gran parte de' proverbi Siciliani aggíuntisono tolti dal Catania, dal Veneziano, dal Vigo, altri dalla raccolta del signor Miná-Palumbo, pubblicata negli Annali di Agricoltura Siciliana, ed altri da un Manoscritto favoritomi dal gentilissimo Marchese Mortillaro; altri sono raccolti dall'uso». Cattolicointegralista palermitano, filoborbonico, lessicografo ed arabista, Vincenzo Mortillaro, marchese di Villarena (1806-1888)è autore del Nuovo dizionario siciliano-italiano, pubblicato in due volumi quattro volte, la cui prima edizione è stata realizzata dal 1838 al 1844 e l’ultima nel 1876. Ma non riesce a fare nessun sostanziale passo avanti verso la vera lessicografia dialettale.

Il rapporto con i proverbi siciliani attraversa tutta la ricerca demo-antropologica del medico palermitano Giuseppe Pitrè(1841-1916), fin dal 1858, quando era studente in un istituto di Gesuiti e aveva comprato la Raccolta di proverbi toscani di Giuseppe Giusti, edita a Firenze nel 1853. «Quel libro – scriverà nel 1880 – mi occupava del continuo principalmente coi riscontri che io trovavo ne’ proverbi siciliani, de’ quali conoscevo gran numero; e non passava giorno che io non vi studiassi sopra, imparandone qualche pagina». Nove anni dopo, quando i quattro volumi di Proverbi siciliani raccolti e confrontati con quelli degli altri dialetti d'Italia, raccolti da Pitrè nel 1980, cominciano ad esser conosciuti in tutta l’Italia e all’estero, l’autore dedica al medico Salvatore Salomone Marino il XIV volume della suaBiblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane. «Nel Giugno del 1865 – scrive – noi c’incontrammo la prima volta […]: tu eri studente di Liceo e autore d’una bella canzone a Dante; io laureato da poco e intento a preparare la mia raccolta di proverbi siciliani».

Nel 1910 Pitrè pubblica il 23° dei 25 volumi della Biblioteca(che dedica alla figlia Rosina, morta sotto le macerie del terremoto di Messina)Proverbi, motti e scongiuri del popolo siciliano. E non omette di scrivere nell’Avvertenza: «Il volume […] contiene mille e più “proverbi” inediti, non compresi nei tredicimila da me pubblicati nel 1880 […]. Agli intendenti della materia non isfuggirà il capitolo “Paesi e Città”, che ha stretto legami con i “Modi proverbiali e motti storici di Palermo”, piccola guida paremiologico-topografica a chi si argomenti di illustrare, sotto questo aspetto, una grande città come l’antica Capitale della Sicilia». È appena il caso di aggiungere che nel 1882 Pitrè aveva fondato e diretto con Salomone Marino la rivista Archivio per lo studio delle tradizioni popolaripubblicata fino al 1909. «Fu quello il primo periodico del genere in Italia – commenterà la figlia Maria Pitrè D’Alia –, uno dei primi all’estero. Ne sono usciti 23 grossi volumi e la sua vita può dirsi gloriosa. Una nuova scuola di raccoglitori e di studiosi si raccolse attorno ad esso, portando un contributo di studi, di ricerche, di indagini e di materiali di tutti i popoli e di molte regioni». Tra questi ci piace ricordare Serafino Amabile Guastella, «barone dei villani» e professore al liceo di Modica, Raffaele Castelli di Mazara del Vallo, don Cristofaro Grisanti di Isnello, Salvatore Raccuglia, nato a Villafrati (da padre mezzojusaro e madre villafratese), ispettore scolastico e studioso di storia e tradizioni popolari, fondatore delle riviste Akragas (Agrigento,1912) e Sicania (Caltanissetta,1913), sul modello dell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari di Pitrè e Salomone Marino.

Nel 1910 il rettore dell’Università di Palermo conferì a Pitrè, ormai settantenne, la cattedra di “Demopsicologia”, ossia la scienza che studia le novelle, i proverbi, gli usi, i costumi e le credenze popolari, la medicina popolare, in una parola il folklore.Il neo professore iniziò le lezioni il 12 gennaio 191163° anniversario della «epica riscossa dell’Isola dai suoi secolari dominatori» (il 12 gennaio 1948). E tenne a precisare: «Per noi la Demopsicologia studia la vita morale e materiale dei popoli civili, dei non civili e dei selvaggi […]. Grandi scrutatori del passato nelle reliquie presenti spendono tutte le energie del loro ingegno nella ricerca della vita dei popoli perché sanno che i postulati della Demopsicologia fan parte della cultura scientifica». Il valore scientifico delle ricerche del Pitrè era ormai riconosciuto dai maggiori studiosi del mondo. Basti pensare che già nel 1882 il 1°volume dell’Archivio ospitava una lettera di congratulazionidell’ormai anziano Friedrich Maximilian Müller, filosofo, filologo, storico delle religioni, linguista e orientalista tedesco, meglio noto come Max Müller (1823-1900). In questa sede è importante ricordare che anche da docente universitario, Pitrè dedicò molta attenzione ai proverbi e che la sua concezione risorgimentale e romantica influenzò un gran numero di studiosi, che li hanno studiati come testimonianze della cultura passata.

Negli anni ’70 del ‘900 e nei decenni successivi le ricerche paremiologiche sono cresciute, anche per impulso di professori delle scuole medie. Il solo libraio ambulante palermitano Pietro Tramonte ha raccolto ben 2.873 tra proverbi e formule paremiologiche. È avviato oramai da decenni L’Atlante Paremiologico Italiano (API), che ha tenuto il suo primo Congresso dal 26 al 28 ottobre 1995 a Modica. E il suo massimo corifeo Temistocle Franceschi ha costituito un Centro Interuniversitario di Geoparemiologia con sede a Firenze e sezioni in diverse altre università italiane. Il Centro di Studi linguistici e filologici siciliani ha avviato una ricerca sulle minoranze linguistiche dell’Isola, il suo presidente Giovanni Ruffino ha studiato da par suo i Proverbi agrari di Francesco Minà Palumbo. Nessuno di questi studi è stato preso a modello dailavori di Roberto Lopes e Nicola Figlia. Se il libro del 2006, che risente del comune vissuto nell’ambiente agro-silvo-pastorale di Mezzojuso e dei diversi percorsi professionali, ha già evidenziatolimiti e contraddizioni dei proverbi, L’anticu ‘un sbagghia mai? Discorsi scritti, disegnati e cantati su alcuni proverbi mezzojusarimette in discussione la pretesa infallibilità e i fini educativi del proverbio antico e apre nuovi orizzonti alla perpetuazione della vita dei detti proverbiali sorti in loco in epoca storia recente.

Tutto ciò è figlio del metodo di lavoro già adoperato dagli autori per la stesura del primo libro. «Il lavoro – scrive RobertoLopes – consisteva nel commento sapienziale che il sottoscritto faceva ad alcuni proverbi che venivano illustrati con il segno ed il colore di Nicola […]. Quindi, si trattava di un dire, di un discorrere che non era di pertinenza esclusiva della parola letta o scritta, ma di un dialogo tra registri comunicativi diversi, che però manifestavano una comune origine, da cui probabilmente rampollano diversi tronchi dell’umana conoscenza […]. In altre parole, il nostro dialogo ha messo in luce aspetti e punti di vista dei proverbi a cui non avevamo lontanamente pensato: sia Nicola che io siamo stati reciprocamente influenzati e stimolati ad approfondire la interpretazione in un gioco di rimandi, di rincorse e di confronti e talvolta di scontri ermeneutici che si originavano dalla voglia di dire il senso dell’essere. È proprio il dire, il légeinquindi il lògos, ciò che Nicola Figlia tenta di fare con il suo percorso poetico: dire tutto il suo mondo senza dire parole, ma dandoci tutto sé stesso. E avere fatto questo significa avere dialogato ed essersi aperti all’altro: infatti la sua esperienza è compresa e comunicata da noi che, in qualche modo, in lui ci riconosciamo in quanto esperienza autenticamente umana che parla lo stesso codice dell’eternità, che accomuna tutto il genere umano: l’essere del poeta Nicola Figlia dialoga con l’essere di tutti noi». 

Le considerazioni di Roberto Lopes ci restituiscono con raffinata capacità espositiva l’aspetto più profondo e meno noto del comunicare per immagini dell’uomo e dell’intellettuale, del pittore per antonomasia di Mezzojuso, che ormai vive a Palermo e continua ad operare per il riscatto culturale del paese nativo. La famiglia Figlia, di tradizione bizantina (come quella di Roberto Lopes), è una delle più antiche della comunità locale ed ha espresso personalità culturali e politiche di rilievo. Nell’ultimo decennio del Seicento, infatti, nasceva a Mezzojuso il futuro protopapàs (arciprete) della parrocchia di San Nicolò di Mira,Nicolò Figlia (1693-1769), che ha lasciato documenti scritti (studiati da Matteo Mandalà) nell’albanese che si parlava a Mezzojuso. Suo nipote Andrea, anche lui ecclesiastico di rito greco, nato a Mezzojuso, rappresentò nel Settecento l’anello di congiunzione tra la comunità albanese dell’Isola e quella presente nell’Italia continentale. Davide Figlia partecipò alla rivolta di Francesco Bentivegna del 1856 e dopo l’unità d’Italia divenne ispettore di polizia e persecutore degli uomini d’azione. 

Su Nicola Figlia, il nostro pittoremi limito a ricordare che, formatosi all’Accademia di Belle Arti a Palermo, disegna a pennino, incide all’acquaforte e dipinge ad olio, lavora su tela e cartelloni. Nella sua arte convivono in modo dialetticoneorealismo, espressionismo, metafisica, arte popolare, influenze bizantineSu lui si sono pronunciati Giacomo Baragli, Francesco Carbone, Bruno Caruso, Franco Grasso, Anna Maria Ruta, Sergio Troisi e i migliori intellettuali del suo paese (da Lopes a Pino Di Miceli, a Lillo Pennacchio, a Tonino Schillizzi, l’ex sindaco), ad altri studiosi siciliani, ai cui scritti rimando. Ma non posso esimermi di riferire che conosco Nicola fin dagli anni ’90 del secolo scorso quando il pittore frequentava gli artisti che si riunivano a Godrano attorno a Francesco Carbone. Con lui ho avuto frequentazioni più intense tra il 2006 e il 2011, dopo che scrissi L’utopia della libertà. Francesco Bentivegna barone popolare e Nicola realizzò 16 disegni (china e acquerello) e un pannello centrale (olio su tela), «a metà tra fumetto e arte popolare», recanti il titolo Francesco BentivegnaStazioni di una passione civile (e corredati da mie didascalie), che vennero presentati il 6 gennaio 2007 dall’associazione “Prospettive” al Castello di Mezzojusonel 2008 a Corleone e nel 2011 a Marineo.Ma le personali di Nicola, iniziate nel 1969 al circolo Silvio Pellico di Mezzojuso, sono tante e distribuite in diverse località siciliane e di altre regioni. Quella organizzata al Museo internazionale delle Marionette “Antonio Pasqualino” lo consacrò «moderno Pittastorie».

Suppergiù nello stesso periodo in cui ho frequentato Figlia ho conosciuto Roberto Lopes. Lo ricordo sulle prime collaboratoredella rivista L’eco della Brignadiretta dall’arciprete latino, monsignor Francesco (detto Franck) Verecondia (1922-2015) e dopo come collaboratore della rivista Nuova Busambra e scrittore colto e raffinato, pregnante di valori umani. La nostra stima reciproca, ad oggi, non è stata mai sfiorata da dissensi. Ci siamo incontrati molte volte in occasione di presentazione di libri miei, suoi e di amici. Ne ho ammirato le capacità di attore della cooperativa Studio Uno del Teatro Dante, regista e organizzatore di laboratori sperimentali, di spettacoli teatrali e musicali di robusto spessore etico-civile, come Tu da che parte stai sulla vicenda umana di Padre Pino Puglisi. La scoperta fatta da Pino Di Miceli di un canto molto triste, raccolto da un tal Vanni Favaloru, poi pubblicato da Alberto Favara, Storia d’u baruni Vintivegnacefalutanu, ha indotto Roberto Lopes ad arrangiarne la linea melodica per cantarla, assieme ad altri a suon di chitarra. E giacché la canzone racconta (non senza imprecisioni storiche) gli ultimi momenti di vita di Francesco Bentivegnafucilato a Mezzojuso nel 1856, Roberto l’ha cantata in eventi da me organizzati all’Istituto Gramsci, all’Università di Palermo e neipaesi della provincia. Su suo invito, chi scrive e Antonella Azoti, figlia di Nicolò, il sindacalista ucciso della mafia a Baucina nel 1946hanno raccontato agli alunni del liceo classico Vittorio Emanuele di Palermo (dove lui insegnava Storia e Filosofia) il grosso tributo di sangue versato dai contadini in lotta per la riforma agraria e la sua gestione.

Ho accolto perciò con piacere l’invito a scrivere una nota per il secondo libro sui proverbi che lui sta preparando assieme a Nicola FigliaE non esito a far mio il giudizio che ne ha dato Augusto Cavadi: Roberto è uno dei pochi siciliani che amano «la tradizione senza essere conservatori; la propria terra senza essere sciovinisti; il proprio dialetto senza essere provinciali; la propria fede cristiana senza essere bigotti». Le argomentazioni di Augustotrovano una precisa conferma nel punto di domanda apposto al proverbio che dà il titolo all’opera: L’anticu ‘un sbagghia maiPer il contadino di vecchio tipo (come Rosario Lopes, zio e padrino di battesimo di Roberto) quel proverbio è «principio orientativo, una sorta di bussola, un porto sicuro nel gran mare dell’incertezza della vita». Il medico etnologo di Ciminna Vito Graziano, autore di 5 articoli pubblicati tra il 1914 e il 1917 sulla rivista nissena Sicaniafondata da Salvatore Raccuglia, nel 1934 scriveva nel suo Canti e leggende. Usi e costumi di Ciminna (ripubblicato nel 2001 a cura di Sergio Bonanzinga): «I proverbi sono la sapienza del popolo, acquisita col decorso di tanti secoli e di tante generazioni, il codice comune a cui attingono tutti e tutti uniformano la propria condotta. Il popolo crede ai proverbi, come a verità infallibili: lu muttu anticu nun po’ falliri ed egli non s’inganna, perché i suoi proverbi trovano riscontro in quelli della sacra scrittura, nella sapienza umana e nei detti degli uomini illustri».

Di tutt’altro avviso è Roberto Lopes, il quale – con tutto il rispetto per le rocciose certezze paremiologiche dello zio padrino, «uso a frantumare la dura zolla»  ha cercato di fargli capire che molti proverbi si elidono a vicenda e si contraddiconoE dopo aver tirato fuori il suo repertorio, il filosofo non esita a concludereche «“l’anticu  nun  sbagghia mai” solo in quei casi in cui, esercitato il discernimento accompagnato da ragione, nelle parole e nelle opere siamo stati orientati dalla volontà di cercare e scoprire la verità, che è anteriore alla distinzione tra teoria e prassi, ed è allora che “ l’anticu” ci ha illuminato nel trovare le cose giuste  non  inducendoci in errore ma sconfiggendo il sempiterno e insidioso  genio maligno cartesiano». E il pittore gli fa pronta e smaliziata eco con un bel dipinto che riproduce il faccione monumentale di un canuto saggio, che tenta invano di addottorare le masse, le quali si trincerano allibite dietro il testo della Legge. Quale legge? La Bibbia? Gli editti del dittatore, comunque chiamati, o quelli mafiosi che controllano il territorio?

Il fatto è che il pittore e il filosofo (nonché storico e narratore del Naufragio del piroscafo Utupia, autore di musiche per spettacoli teatrali del mondo classicoda Aristofane, a Plauto, a Sofocle, a Nino Martoglio, a Brecht), hanno sempre preso le distanze dai mafiosi. E se hanno avuto gran rispetto per le persone colte del passato e del presente, non sono state queste a ispirare le loro ricerche sui proverbi. Basti scorrere l’indice per rendersi conto che la loro vera ambizione è stata quella di raccontare la sapienza degli analfabeti e delle persone poco alfabetizzate di Mezzojuso, capaci di esprimersi solo in dialetto e costretti ad operare in condizione di subalternità fisica e, ancor di più morale,rispetto alla classe egemone e dominante. Penso agli zappaterra, alle donne tenute in pessima considerazione dalla famiglia patriarcale, alle spigolartici che si contendevano con le formiche i chicchi di grano caduti tra le stoppie. Di queste figure che affrontavano la dura fatica dell’esistenza in funzione delle generazioni future, il filosofo e il pittore hanno cercato di esaltarel’aspirazione alla libertà, al sogno, all’utopia, al miraggio di un mondo miglioreTraguardi talora impossibili come le farfalle di mastru Nu, o colorati ed evanescenti come i palloni di Petru Sasizza: due personaggi iconici del mondo subalterno mezzojusaro, scomparsi assieme alle ultime lucciole, che vivrannoforse in eterno, anche ben oltre i confini di Mezzojuso, grazie a questo libro e alle canzoni di Roberto Lopes ad esso annesse.

Pippo Oddo

 

 

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