Alla sbarra Luciano Liggio Giuseppe Pullarà e Domenico Coppola al processo alla nuova mafia, nel 1976 |
AMELIA CRISANTINO
Nel 1963 si era in piena corsa spaziale. Per tre giorni la navicella Vostok-6 lanciata il 16 giugno dai russi era rimasta in orbita attorno alla terra: l’impresa, certo esaltante, aveva colpito anche l’insospettabile comandante dei carabinieri di stanza a Corleone, che nello stesso mese di giugno firmava un Riservatissimo rapporto sulla mafia di quel paese così poco tranquillo.
Il comandante Agostino Vignali esordiva scrivendo che, mentre il mondo affrontava la conquista degli spazi, « sarebbe ridicolo, o quanto meno paradossale, parlare ancora di argomenti che sanno di oscurantismo » come la mafia. Poi s’inoltrava in una minuziosa ricostruzione che contraddiceva le premesse e definiva la mafia come controllo sul territorio: una organizzazione criminale con un «programma polivalente in netto antagonismo con ogni ordine costituito » . Il ventaglio dei titoli, delle benemerenze e delle amicizie del dottore Navarra era più eloquente di un trattato sociologico sul classico capomafia: ma il comandante Vignali elenca ogni cosa in maniera meccanica, senza comprendere i meccanismi dell’intreccio con la politica.
Erano difficili gli anni Sessanta a Corleone. L’accumularsi dei delitti
prodotti dallo scontro tra la mafia vecchia del dottore Michele Navarra e
quella emergente del giovane Luciano Liggio aveva provocato sgomento e paura.
Ma lo stesso, in tanti avevano parlato.
Con opera meritoria di recupero della memoria il giornalista Ernesto Oliva è andato a leggere le carte con le deposizioni: ha preso il volume con la Documentazione allegata alla relazione conclusiva della Commissione antimafia pubblicato nel 1980, ha ricostruito le vicende che potevano cambiare la storia degli ultimi 50 anni e ne ha fatto un libro, “I pazzi di Corleone. I compaesani di Liggio, Riina e Provenzano, testimoni minacciati dalla mafia e abbandonati dallo Stato” (Di Girolamo, 224 pagine 20 euro) che da vicino ci lascia vedere come uno dei capisaldi su cui si regge il potere della mafia, il comportamento omertoso, sia un risultato indotto da due protagonisti che sembrano operare in tandem: la mafia e lo Stato. E bisogna pur dire che non si tratta di novità, sono miopie presenti e operanti già negli anni a ridosso dell’Unità, quando si celebrano i primi processi: a Monreale, e siamo negli anni Settanta dell’Ottocento, la lotta era tutta attorno alla distribuzione dell’acqua ma le denunce degli utenti vengono lasciate cadere. E la mafia prospera in questa latitanza dello Stato, in questa incapacità a fronteggiare il malaffare e tutelare i cittadini.
La comunicazione sulla mafia si nutre di luoghi comuni, il lavoro di
Ernesto Oliva smonta alcuni stereotipi parecchio diffusi. Ad esempio, come
scrive Umberto Santino nell’introduzione, ci mostra come il giudizio sulla
“corleonesità”, che produce anche stragi, sia in buona parte indotto
dalle dichiarazioni di Buscetta: il boss dipingeva se stesso e i suoi
amici quasi come una società di mutuo soccorso, imputando ai corleonesi il
tradimento dei presunti antichi valori. Ma raccontava solo l’ultimo scontro
generazionale tra vecchia e nuova mafia, dove i “vecchi” che molto hanno da
perdere dipingono se stessi come moderati e amanti dell’ordine. Ed è un
meccanismo sempre all’opera, che si rinnova a ogni generazione mafiosa.
I “pazzi di Corleone” di Ernesto Oliva si chiamano Luciano Raia, Vincenzo
Maiuri e Vincenzo Streva: nomi sconosciuti alle cronache. Fra il 1957 e il 1969
forniscono a poliziotti, carabinieri e magistrati indicazioni preziose sulla
faida che insanguina il paese, e sono solo una parte dei tanti corleonesi che
hanno scelto di denunciare. I loro casi, per molti versi esemplari, ci mostrano
come l’ascesa di Liggio ai vertici dell’organizzazione mafiosa poteva essere
fermata. Chi decideva di denunciare si affidava alla giustizia dello Stato, in
una Corleone dove anche con l’avvicinarsi a un carabiniere si metteva a rischio
la propria vita e quella dei familiari.
Purtroppo non venne compresa l’importanza del loro gesto di rottura. E
l’incapacità dello Stato a tutelare chi denunciava diede presto i suoi frutti:
i testimoni vennero chiamati a confermare in aula le loro deposizioni, anche
uno sciocco avrebbe capito che nel frattempo chissà quante minacce avevano
subìto, chissà quanta paura.
Ritrattarono, si finsero folli. Seguì una lunga stagione di processi
scandita da beffarde assoluzioni per insufficienza di prove. In pochi avevano
capito l’importanza di quel denunciare quasi corale. L’aveva capito il giudice
istruttore Cesare Terranova, che su quelle denunce ottenute da polizia e carabinieri
scrive un dettagliato rapporto investigativo e riesce a istruire il processo
celebrato a Bari nel 1969: una sorta di maxiprocesso contro 64 esponenti del
clan Liggio, con Terranova che compone un quadro d’accusa utilizzando anche le
dichiarazioni di numerosi testimoni. Un processo epocale. Che però si chiude
con condanne irrisorie e subito emergono le minacce subite dai giudici
popolari, che – pare incredibile – hanno ricevuto lettere minatorie mentre
erano riuniti in camera di consiglio.
Il “teste-bomba”, Luciano Raia, messo a sedere a pochi metri da Liggio,
aveva fatto del suo meglio per convincere tutti quanti del suo disordine
mentale. Meglio pazzo che ammazzato. Lui e tutta la sua famiglia a cominciare
dalla moglie Biagia Lanza, che per prima aveva parlato ed era finita sui
giornali come la donna che aveva osato sfidare il potere di Luciano Liggio,
guadagnandosi il soprannome di Peppina la coraggiosa.
Perché anche questo accadeva nella sconosciuta Corleone degli anni Sessanta
del Novecento, che le prime a parlare e denunciare fossero le donne.
La Repubblica Palermo, 20 febbraio 2021
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