di ISAIA SALES
Migliaia e migliaia di morti ammazzati dal 1861 in poi, di cui almeno
10.000 negli ultimi 30 anni del Novecento. Almeno 1000 civili caduti, tra cui
84 donne e 71 bambini. Centinaia e centinaia di imprenditori, commercianti,
sindaci, amministratori locali uccisi. Settanta tra sindacalisti e capilega
ammazzati tra il 1905 e il 1966. Quindici magistrati uccisi (più dei 10 caduti
per mano dei terroristi rossi e neri), e centinaia di vittime tra le forze
dell’ordine, tra cui diversi in attentati mirati. Nove giornalisti ammazzati,
tanti ancora oggi minacciati e intimiditi. Secondo i calcoli di Enrico Deaglio,
a Palermo e provincia solo tra il 1981 e il 1983 ci sono stati più di 1000
morti. A Napoli, Caserta e Salerno si sono verificati 1598 omicidi solo
tra il 1975 e il 1985. A Catania 1000 e a Reggio Calabria 2000 nel periodo
1980/1993. E la mattanza è continuata tra la fine del Novecento ad oggi con
altri 3000 delitti commessi nonostante l’enorme calo registratosi in Sicilia. E
non sono mancati delitti di mafia al Centro- Nord (il primo eccellente è quello
del magistrato Bruno Caccia a Torino nel 1983) con Lombardia, Piemonte, Liguria
ed Emilia- Romagna che hanno assunto un ruolo centrale negli equilibri mafiosi,
in particolare di quelli ?dranghetisti. La nazionalizzazione delle mafie, cioè
il loro vasto radicamento nel Centro-Nord, è sicuramente il fenomeno
politico-criminale più significativo dell’ultimo trentennio.
Dal 2004 al 2020 sono stati arrestati 76.600 affiliati alle diverse
organizzazioni mafiose, di cui almeno 10.000 condannati a lunghi anni di
carcere; 759 sono oggi reclusi al 41 bis, il carcere speciale per i mafiosi. È
stata adottata una legislazione speciale che non ha analogie in nessun’altra
nazione in tempi di pace. Ben 209.108 sono i beni interessati a misure di
sequestro e confisca per un valore di 21,7 miliardi di euro, di cui 97.378
immobili e ben 15.059 aziende. Ci sono stati, infine, ben 352 decreti di
scioglimento di comuni (tra cui una città capoluogo, una Provincia e diverse
aziende che gestiscono la sanità pubblica) in cui il nemico ha fortemente
condizionato la gestione della vita amministrativa di intere comunità.
Sono solo alcune cifre di una tragedia nazionale che non è finita affatto e
che continua con almeno 10.000 soldati di questo esercito criminale ancora in
azione, che continua a detenere una forza economica impressionante. Il
ministero dell’Interno, in un recente studio, ha stimato le attuali entrate
economiche della camorra in 3750 milioni di euro, quelle della ?drangheta in
3491, mentre Cosa Nostra si attesta a 1874 milioni di euro e la criminalità
pugliese a 1124.
Ciò che colpisce delle mafie è, appunto, la loro lunga durata storica, una
presenza che si protrae inarrestabile da due secoli, dai Borbone allo Stato
unitario, sopravvivendo al fascismo e ripresentandosi in grande stile nel
secondo dopoguerra fino a segnare alcuni dei tratti fondamentali della nostra
storia contemporanea. Le mafie sono una forma di arcaicità che ha avuto
successo, un residuo feudale che si è trovato a proprio agio nella
contemporaneità. Un caso di assoluta originalità e di apparente inspiegabilità:
potremmo definirla la più impressionante dinamica della permanenza (per usare
le parole di Lucio Caracciolo) nella storia e nella società italiane. Come mai
hanno resistito tanto a lungo? Come mai non sono state eliminate nonostante la
fortissima repressione a cui sono state sottoposte negli ultimi tre decenni e
mezzo dopo aver goduto di più di un secolo di una incredibile impunità?
Tutte le forme criminali che hanno contrapposto il loro potere armato allo
Stato moderno sono state sconfitte. L’Italia post unitaria sradicò il
brigantaggio in meno di un decennio (causando più morti di tutte le guerre di
indipendenza messe insieme). Nel secondo dopoguerra ha debellato il
terrorismo etnico in Alto Adige, il separatismo siciliano, il terrorismo
politico delle Brigate Rosse e dei neofascisti, il banditismo in Sardegna, i
sequestri di persona. Le mafie no.
È imparagonabile, ad esempio, ciò che l’Italia ha fatto contro il
terrorismo p olitico tra gli anni ’70/’80 del Novecento (che aveva causato un
numero di vittime inferiore a 100, escludendo le stragi) rispetto a ciò che ha
fatto contro le mafie. Anzi la lotta al terrorismo politico fece passare sotto
silenzio in quegli anni il problema delle mafie al Sud. I migliori
investigatori furono usati contro le Brigate Rosse. E fu proprio in quel periodo
che la mafia siciliana, indisturbata, aprì delle proprie raffinerie di droga
nell’isola e assunse un ruolo centrale nel narcotraffico internazionale e,
contemporaneamente, i clan camorristici e le ?drine calabresi divennero
protagonisti sulla scena criminale. Ma perché lo Stato è apparso
efficiente contro il terrorismo (e contro le precedenti forme criminali) e
non contro le mafie? La risposta è molto semplice. I terroristi erano esterni
allo Stato, volevano abbatterlo. I mafiosi no, non sono in guerra contro di
esso, o in ogni caso non sentono lo Stato avversario, ma solo singoli uomini
che lo rappresentano. Inoltre, il terrorismo in genere non è una componente
dell’economia mentre le mafie sì. L’economia criminale è contro le leggi dello
Stato ma non contro quelle di mercato. Il ricorso ai mafiosi negli affari
comincia a presentarsi come una risposta strutturale alle esigenze di una parte
dell’economia di mercato.
Tutto ciò ci porta a dire che vanno espulse dal lessico pubblico sulle
mafie tre valutazioni sbagliate: che c’è stata una vera guerra tra Stato
italiano e mafie; che le mafie rappresentano un antistato; che esse sono
espressione di una arretratezza economica.
La lotta alle mafie è un campo dove il linguaggio militare non ha
nessuna efficacia per spiegarne gli interessi in gioco, seguirne gli andamenti
e individuare i contendenti. Questa lotta ha sicuramente i tratti di una guerra
civile perché i soldati sono italiani, e di una guerra totale perché miete
vittime da più di un secolo e mezzo e ultimamente in tutto il territorio
nazionale. Ma le analogie con la guerra si fermano qui. D’altra parte l’impegno
repressivo dello Stato è cominciato seriamente solo qualche decennio fa e in
diversi territori si può tranquillamente affermare che si è a lungo protratto
un duopolio nell’uso della violenza e un duopolio della tassazione (tasse allo
Stato e pizzo alle mafie). E poi, che guerra è questa se i nemici spesso sono
amici? Se i nemici con i loro voti hanno contribuito a fare eleggere in ruoli
istituzionali i loro amici? E se il nemico è foraggiato con i soldi che lo
Stato investe nei lavori pubblici? Che guerra è questa se le attività
economiche illegali (contrabbando di sigarette, prostituzione e traffico di
droga) fanno parte ufficialmente del Pil nazionale, concorrono cioè alla
ricchezza del Paese? Che guerra è questa se il nemico si rafforza
economicamente spostandosi tranquillamente da un territorio all’altro, si
radica nel Centro-Nord e lì costruisce nuove casematte di consenso? Insomma,
non è affatto una guerra quella in cui i nemici dichiarati hanno relazioni
permanenti con coloro che dovrebbero combatterli!
Scriveva argutamente Giovanni Falcone: «Il dialogo Stato-Mafia, con
gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa nostra non
è un anti- Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela», un potere
riconosciuto e legittimato nel corso del tempo da chi il potere istituzionale
lo esercita ufficialmente. Se è esistita una politica senza mafia, non è mai
capitato che si consolidasse un potere mafioso senza un rapporto con la
politica e le istituzioni. Esistono Stati senza mafie, ma mai una mafia che non
utilizzi i rapporti con lo Stato e i suoi rappresentanti.
Purtroppo il rapporto perverso tra violenza e potere non è stato mai risolto
definitivamente in Italia. È questo uno dei buchi neri della nostra democrazia
e della nostra fragile statualità. Il canone del potere in Italia sembra
oscillare tra giustificazione della violenza, furbizia e spregiudicatezza,
tra Il Principe di Machiavelli e Todo modo di Sciascia.
Girolamo Li Causi, il dirigente comunista siciliano che la lotta alla mafia la
fece in prima persona, diceva: «Se vuoi capire l’Italia, studia la mafia,
interrogati sul suo successo ». E aveva ragione.
Si possono combattere le mafie senza leggi speciali? E senza mettere in
campo una reazione più ampia di quella militare-repressiva? Coniugare diritti
fondamentali con l’esigenza che lo Stato faccia sul serio lo Stato è una
questione aperta e non banale. Ma se la sfida si pone a questa altezza è
necessario rivedere alcuni cardini della strategia contro le mafie. A partire
dalla norma sullo scioglimento dei consigli comunali: c’è una discrezionalità
troppo ampia nella sua applicazione, i funzionari prefettizi non sempre sono
all’altezza dei compiti loro assegnati come commissari, in molte realtà gli
organi dello Stato appaiono inflessibili più verso i piccoli comuni che verso i
grandi. Quando poi si arriva a constatare che ben 78 comuni sono stati sciolti
più di una volta, e a volte per ben tre volte (e si potrebbe arrivare
addirittura alla quarta!) vuol dire che la legge non è più efficace. Le leggi
in genere devono fornire senso dello Stato non paura dello Stato agli
amministratori onesti, altrimenti si arriva ad una eterogenesi dei fini: si
allontanano i migliori dalla politica locale. Così come si deve
radicalmente cambiare passo nell’utilizzo dei beni confiscati, dando la massima
attenzione agli aspetti economici della questione: su migliaia di imprese
confiscate pochissime sono state rimesse sul mercato. È impressionante la
sproporzione tra il valore della ricchezza sottratta ai mafiosi e il ritorno
economico per i territori interessati. Finora non è stato dimostrato
(nonostante encomiabili eccezioni) che sottraendo i soldi alle mafie si aumenta
la ricchezza collettiva.
La lotta antimafia non è un pallino di orde di fanatici che si sono
inventati un pericolo che non c’è o che l’hanno ad arte esagerato. E in ogni
caso meglio un eccesso di attenzione alle mafie che quel negazionismo su di
esse che ha segnato i primi trent’ anni dell’Italia repubblicana.
Caratteristica del movimento antimafia negli ultimi decenni è l’affiancamento a
chi è preposto all’azione di contrasto di un originale movimento d’opinione
prima inesistente. Che questo affiancamento civile abbia potuto generare forme
di fanatismo, o di disconoscimento delle garanzie minime di uno Stato di
diritto, è fuori dubbio. E vanno assolutamente riportate a sobrietà tutte le
persone che operano nel campo, a partire dai magistrati. Ma non si può
rimpiangere minimamente la situazione precedente.
Per esempio, come non si fa a cogliere il valore dirompente
dell’organizzazione dei familiari delle vittime. Il dolore privato si è
trasformato in dolore pubblico, rompendo un altro tabù in base al quale la
morte violenta doveva essere tenuta dentro le pareti domestiche. I familiari
hanno invertito la rassegnazione e la dimensione privata delle loro tragedie,
spingendo le istituzioni a intitolare strade, aule, biblioteche ai loro cari
caduti, scrivendo biografie, ispirando mostre, romanzi, film, opere teatrali,
canzoni. Sulla base di esperienze fatte in altri contesti (le madri e le
nonne dei desaparecidos in Argentina e in Cile) il movimento antimafia si è
impegnato a che nessuna vittima innocente debba essere dimenticata. E quando il
dolore privato si espone sulla scena pubblica ci possono essere eccessi e
qualche protagonismo di troppo (dovuto anche alla non totale elaborazione del
lutto da parte di alcuni familiari). Ma meglio il valore dirompente e a volte
non equilibrato del dolore pubblico che la rassegnazione privata. Nel Sud tutto
ciò è ancora più significativo perché si è dimostrato che in queste terre ci
sono state sì le mafie, ma anche chi le ha combattute. In Italia gli eroi civili
del secondo dopoguerra sono quasi tutti meridionali, e la lotta antimafia
rappresenta il più originale contributo della società civile meridionale ai
valori condivisi della nazione.
La Repubblica, 15 febbraio 2021
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