L'articolo sulla rivista F di Linda Marino |
LINDA MARINO
Ho in mano la relazione clinica che mi è stata appena consegnata dalla neuropsichiatra che mi segue da alcune settimane. Su una manciata di fogli, nero su bianco, c’è scritto che sono autistica, ho la sindrome di Asperger. Li leggo e li rileggo fino a consumarli e, tutto d’un tratto, quel puzzle confuso che per anni avevo cercato di assemblare inizia a prendere forma. Mi passa tutta la vita davanti e, finalmente, le mie ansie incontrollabili, la mia incapacità di relazionarmi agli altri, il mio essere chiusa e riservata, assumono una loro identità. La diagnosi non è una condanna, anzi, porta la luce nella mia grigia esistenza. Non sono sbagliata, mi ripeto come un mantra, solo diversa, e la diversità può essere ricchezza.
La
mondanità non fa per me
Non
ho un carattere da compagnona, ho sempre schivato come la peste
cene, feste, comitive, baci e abbracci. Nonostante ciò, mi sono sempre fatta in
quattro per adeguarmi a quella società che corre veloce e ci impone di essere
accomodanti con tutti. Sin da bambina, non ho mai avuto un amico, stavo molto
bene con me stessa, ero sola e cercavo di imitare i comportamenti degli altri,
ma i risultati erano goffi: io non potevo essere come gli altri, ma questo
ancora non lo sapevo. Per 32 anni, ho recitato
per farmi accettare. Era uno sforzo immane, che mi faceva stare troppo male.
Malissimo. Fino al punto di non ritorno. O meglio, fino a quando ho capito che
non avrei più potuto convivere con quella lancinante sensazione di
sofferenza. Dovevo fare qualcosa.
Questo mio
essere introverso si acuisce nel 2018, dopo la malattia e la morte di
mio padre, che adoravo. Nonostante il forte legame che ci univa, anche nei suoi
confronti non sono mai riuscita a lasciarmi andare. Mai un abbraccio né una
carezza, ma questo per lui, più introverso di me, non era un problema. Lo era
invece per mia madre, donna solare che ha sofferto per il mio carattere
schivo.
Inizio
a vivisezionarmi
Il mio
viaggio verso la scoperta della verità inizia il 21 febbraio dello scorso
anno. Sono in ufficio, ho una discussione al telefono con una
persona, un diverbio nato da una banale incomprensione, ma io ho una
reazione esagerata. Chiusa la telefonata, scoppio in un pianto incontrollabile,
davanti ai miei colleghi, che tra l’altro mi conoscono da poco, essendo una
neoassunta. Piango e singhiozzo quasi a soffocarmi. A quel
punto, capisco che dentro di me c’è qualcosa su cui indagare. I mesi
di lockdown mi aiutano molto perché mi regalano quel tempo a
disposizione che mi era sempre mancato per studiare ogni più piccola parte di
me stessa. Non dovendo andare al lavoro, e non dovendo incontrare gente,
accantono quel copione che da anni mi porto dietro. Del resto, sono a
casa mia, la mia comfort zone, con il mio compagno, non devo essere
diversa da come sono. Inizio a scandagliare portali e siti
internet, finché un giorno scopro che quella reazione violenta e
spropositata avuta in ufficio ha il nome di meltdown, una
manifestazione emotiva violenta tipica degli Asperger.
Il
dubbio mi consuma
Inizio a
sospettare di essere autistica, e più passano i mesi, più quel tarlo
diventa un macigno. La scorsa estate sono al mare con mia
madre. Adoro il mare, su di me ha sempre avuto un effetto catartico,
scompaiono ansie e paturnie. Stacco la spina dal lavoro e da
tutto il resto, ho più tempo per pensare e, perché no, indagare.
Continuo la
mia ricerca, finché un giorno finisco su un sito web sull’autismo che
mi consente di fare un test di screening: rispondo a tutte le domande
e il risultato è evidente: rientro nella condizione di sindrome di
Asperger. Vado da mia madre e a bruciapelo le chiedo: “E se fossi
autistica?”. Per poco non mi ride in faccia. “Ma cosa stai dicendo?
Io sono tua madre, me ne sarei accorta, non hai niente che non vada!”.
Il mio
compagno scettico
“Secondo me
ti stai solo fissando”, mi dice. Negli anni, lui è una delle poche persone
con cui sono riuscita a lasciarmi andare, per cui non mi vede poi
così diversa dalle altre. E poi, nell’immaginario collettivo, nei libri come
nei film, l’autistico viene rappresentato come una caricatura, un
personaggio grottesco: sguardo basso, incapacità di comunicare, movimenti
poco armonici, penso a Rain man, il film
con Dustin Hoffman. Io non sono così.
Alla fine
dell’estate mi ricordo di un ragazzo Asperger che avevo conosciuto
qualche anno fa. Col senno di poi, io e lui avevamo molti tratti in comune
di quanto potessi pensare, ma a quel tempo non gli avevo dato
peso. E’ lui a indicarmi la strada che darà la
risposta alle mie domande. Contatto una neuropsichiatra, inizio
così un percorso in cui le racconto tutta la mia vita, ed è una
liberazione. Incontro dopo incontro, mi sento libera di un fardello
che premeva sul petto da quando ero una bambina.
Poi
arriva la diagnosi
Un giorno
mi dice che, sì, sono Asperger. Combacia tutto: interessi ristretti e
assorbenti; incapacità di socializzare e sviluppare relazioni
sociali; isolamento; selettività alimentare; mutismo selettivo. Esco
da quella stanza, consapevole che da quel momento in poi non avrei dovuto
più subire la mia vita, il mio destino, ma esserne l’artefice.
Oggi sono
una donna forte, con una diagnosi che mi ha fatto capire che non sono
sbagliata, ma solo diversa. Una persona che è riuscita a
conquistare il suo posto in un mondo che tutto era fuorché a sua misura. E
che ora, questa vita, può prenderla a morsi.
Settimanale F, n. 7
del 16 febbraio 2021
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