martedì, febbraio 09, 2021

Femminicidi, l’invincibile cultura patriarcale che tiene i siciliani prigionieri



di SILVANA GRASSO

La scrittrice analizza l'ondata di nuove violenze sulle donne

Rosalia, Monica, Ana, Alessandra, Annamaria, Alice, Nicoletta, Roberta, Piera. Non sono nomi che vedremo su un grosso fiocco rosa, appeso alla porta di casa, mentre sventola al sole della nostra Sicilia e annuncia tutto il quartiere la nascita di una nuova vita. No, saranno nomi scritti su una stele di marmo al Cimitero, e annunceranno morte a chi, passando, passeggero pietoso, vi lascia un fiore, una preghiera, una spiga di dolore per quella giovane vita perduta. Dalla vita alla morte un attimo, un soffio, un «raggio di sole ed è subito sera».

Erano mamme, erano figlie, erano mogli, erano sorelle. Erano speranze, progetti, volti, sorrisi, emozioni, àncora di sentimento. Erano soprattutto Donne. Donne sulla difficilissima via (ancora al Sud difficilissima) d’una emancipazione reale, non surrettizia né declinata dai tanti luoghi comuni del fallimento femminista. Un’emancipazione che, mai come nel femminicidio, è speculare all’etimologia latina del termine, uscire fuori (e-mancipare) dal “mancipio”, la “cerimonia” per cui, nel diritto romano, lo schiavo veniva affrancato dal padrone che lo aveva tenuto fino a quel momento in suo “mancipio”.


Perché di questo si tratta, di un tentativo disperato da parte della donna di emanciparsi da una realtà socio-ambientale che nella sostanza non collabora, non emàncipa, da una sudditanza millenaria “mitologica” della femmina al maschio, che oggi è nelle sabbie mobili della transizione, al collo il cappio dell’ignoranza, impreparato culturalmente all’emancipazione della sua compagna. Di questa emancipazione il maschio pensa che spetti solo e soltanto a lui la decisione, esattamente come nella società latina era il padrone a decidere per l’emancipazione del suo schiavo.


Un trentennio fa la richiesta di “emancipazione” da parte della donna, era minima, la minigonna, il caffè al bar con le amiche, la festa al ristorante con le mimose l’8 marzo, il giretto al centro commerciale con la collega, e tra i due contendenti, femmina – maschio, si poteva trattare per piccoli compromessi, oggi non si può più. Oggi, assai più che la Politica la Legge e il Femminismo, sono i Social l’erogatore d’emancipazione, paradossalmente assunti (grandissimo pericolosissimo equivoco) come “garanti” d’emancipazione.

Anche le coppie in dissidio irreversibile “guerreggiano” sui social, duellano per armi incruente, i post, fino a quando, sempre più spesso, l’arma del maschio diventa cruenta, mortale, il pugnale la pistola il pestaggio il fuoco, e i like sono visti come l’eldorado di questa fittizia pericolosa emancipazione.


Sia il Mito che la Storia registrano sudditanza del femminile al maschile, è recentissimo, non più di cinquant’anni fa, il tentativo operato dalla Legge a tutela dell’indipendenza del femminile. Allora, ci si chiede, perché ancora tante vite, e non solo in Sicilia, ammazzate scannate pugnalate lapidate bruciate? Perché leggi e costume, leggi e “cultura”, leggi e lavoro, leggi e “sociale”, leggi e antropologia non dialogano, ognuno fa quadrato attorno a sé, ognuno indifferente se non sospettoso dell’altro.

Manca la comunicazione, manca una progettazione d’intenti che incida sulla carne della quaestio. Oggi sulla carne delle donne, per ultima Piera, incide un coltello affilato che non cerca compromessi, che non dà scampo, che afferma nel silenzio della lama il vecchissimo adagio «mors tua vita mea».

Un maschio che uccide una donna, compagna madre moglie fidanzata, Salvatore che a Palermo uccide Piera, giovanissima neocantante melodica, rivendica nel gesto – ma lui non lo sa, non ha il corredo culturale per saperlo – la difesa della «sua vita».

Non certo la vita fisica, biologica, assolutamente no, nessuna donna fisicamente fa mai paura a un maschio, nessuna donna intimorisce il maschio. La “vita” intesa come quell’insieme di “leggi non scritte”, il costume, che si tramandano ottusamente da padre in figlio, quasi fossero lievito-madre. Un modus cogitandi che, in certi ambienti di arretratezza culturale, i padri passano ai figli come un santo Graal da custodire, pena l’estinzione della specie- maschio. Ammazzare la donna-compagna è l’extrema ratio, l’ultima spiaggia, dopo un percorso, comune a quasi tutti i femminicidi, fatto di litigi, riappacificazioni, botte, denunce, sporte e ritirate. I tanti “Salvatore” assassini, da Nord a Sud, si trovano a un bivio: salvare la compagna, dunque platealmente sottomettersi alla sua emancipazione, o salvare le leggi “non scritte” del patriarcato (di cui sia ben chiaro non conoscono né il nome né l’implicazione antropo-culturale)?

Quello è il momento che decide per la vita o la morte.

La Repubblica Palermo, 8 febbraio 2021

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