DI SERGIO RIZZO
Se 145 persone condannate per mafia hanno avuto il reddito di cittadinanza è perché chi gliel'ha concesso non era a conoscenza della loro fedina penale, immaginiamo per la semplice ragione che non poteva accedere al server con l'informazione decisiva
Adesso ci mancavano solo i mafiosi. Che il reddito di cittadinanza, misura in linea di principio condivisibile in un Paese dove disoccupazione giovanile e povertà dilagano, fosse stato introdotto in maniera dilettantesca, era ormai lampante. Dimostrazione più clamorosa, la notizia che alcuni parlamentari nonché molti politici locali avevano approfittato delle falle presenti nel meccanismo di concessione del beneficio. Una follia alla quale si è posto rimedio pochi mesi fa, a due anni dall'entrata in vigore della legge, per decisione del ministero del Lavoro: alla buon'ora.
Sul reddito di cittadinanza così congegnato, per la verità, ci sarebbe molto di dire. Le regole sono fatte male al punto da consentire abusi e non far arrivare i soldi a molti veri poveri. Per non parlare dello spaventoso fallimento dell'idea che il reddito potesse rappresentare l'occasione per far trovare lavoro ai suoi beneficiari con l'assunzione di qualche migliaio di navigator. Gli unici che hanno trovato un'occupazione con i soldi dei contribuenti.
Fecero scalpore, non molto tempo fa, alcune dichiarazioni dell'ex presidente dell'Inps Tito Boeri, il quale rivelò che secondo stime dello stesso istituto di previdenza una parte rilevante dei percettori del reddito di cittadinanza si potrebbe annettere alla categoria degli evasori. Boeri raccontò di aver proposto al governo gialloverde che varò la misura di mettere a punto alcuni accorgimenti prima di applicarla. Uno di questi era l'incrocio delle banche dati. La cosa non ha avuto ovviamente seguito, e Boeri è stato sostituito. Ma se si fosse seguito il suo consiglio molti errori sarebbero stati probabilmente evitati: a cominciare proprio dalla concessione dell'assegno di cittadinanza ai condannati per mafia.
Eppure non ci voleva un premio Nobel per capire che quello era il minimo sindacale, prima di distribuire a pioggia tanti soldi. Molti, senza averne diritto avrebbero cercato di approfittarne, ma la tecnologia avrebbe costituito una barriera efficace. Perché non si è fatto, è presto detto. Se la burocrazia in questo Paese non funziona, è anche colpa degli uffici pubblici che non si parlano. E non si parlano perché non si vogliono parlare. Le banche dati non dialogano fra loro a causa di gelosie fra le amministrazioni che servono a mantenere piccole fette di potere. Senza che finora ci sia mai stata, fatto gravissimo, una politica in grado di imporre l'obbligo di mettere tutte le informazioni di cui dispone un ministero a disposizione degli altri ministeri. La cosa più banale per uno stato che voglia dirsi tecnologicamente evoluto. Se 145 persone condannate per mafia hanno avuto il reddito di cittadinanza è perché chi gliel'ha concesso non era a conoscenza della loro fedina penale, immaginiamo per la semplice ragione che non poteva accedere al server contenente quell'informazione decisiva. Altrimenti non sarebbe successo.
Questa storia assurda insegna che una delle prime riforme da fare per rendere le nostre pubbliche amministrazioni un pochino più decenti è quella di obbligarle a parlarsi. Gli strumenti ci sono, e lo Stato non lesina neppure le risorse: almeno a giudicare dai 6 miliardi e 200 milioni di euro che spendiamo ogni anno per l'informatica pubblica. Tutto funzionerebbe meglio e i cittadini italiani sarebbero un po' meno sudditi. Non servirebbe nemmeno una legge, ma soltanto buonsenso: proprio quello che finora è sempre mancato. Aspettiamo ora che il ministro della Pubblica amministrazione faccia quello che non è stato fatto in tutti questi anni. Anche quando egli stesso, per più di tre anni fra il 2008 e il 2011, occupava la stessa poltrona.
La Repubblica, 21/02/2021
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