Giovanni Pascoli |
Par Francesco De Nicola
Uscito a fine luglio 2020 e andato in ristampa un mese dopo, “Pascoli maledetto” di Francesca Sensini è un saggio ma si legge come un romanzo. Nelle sue pagine l’autrice ha raccolto in un racconto unitario i frammenti sparsi della personalità dell’uomo e artista Giovanni Pascoli, troppo a lungo ingiustamente imbalsamato in una narrazione mainstream di traumi, lacrime, nidi, piccole cose e fanciullaggini. L’autrice consuma la sua personale vendetta, piena d’amore e di simpatia umana per il suo autore, restituendogli i pezzi della sua vita, della sua opera e del suo pensiero taciuti o trascurati nella narrazione vulgata e ricollocandolo nel contesto a cui appartiene: la grande letteratura europea di fine secolo e la poesia dei poeti maledetti. Una recensione di Francesco De Nicola (Università degli Studi di Genova).
2 février 2021
“Pascoli maledetto” di Francesca Sensini (Il Melangolo 2020)
…una sua andatura
letteraria fra disinvolta e ribelle..
“Pascoli fanciullino”:
con questa etichetta, ripetuta passivamente da decine di quei manuali e
antologie scolastiche che sono un probante esempio della poco nobile procedura
del “taglia e incolla”, generazioni di studenti hanno definito l’autore
di Myricae. Ma le etichette possono essere utili per distinguere il
barattolo dello zucchero da quello del sale, ma non certo per definire una
persona che, per sua natura, è soggetta a cambiamenti nel corso degli anni e
perfino dei giorni; e lo stesso ovviamente vale per gli scrittori.
Nel caso di Giovanni
Pascoli ce lo dimostra con mille probanti argomenti Francesca Sensini nel
saggio dal titolo provocatorio Pascoli maledetto (Genova, il
Melangolo, 2020) dove nell’introduzione l’autrice afferma con chiarezza (e questa
qualità, insieme con l’affabilità dell’esposizione e l’assenza di ogni tono
saccente, troveremo in tutte le pagine seguenti) che “questo è un lavoro a tesi
ed un lavoro di parte”; l’obiettivo è dunque quello di
rimuovere o, direi meglio, demolire l’immagine vulgata dell’uomo e
quindi del poeta malinconico e patetico, ligio al suo ruolo di capofamiglia
impostogli dagli eventi per sostituirgli quella dell’uomo vivace, simpatico e
rivoluzionario, dedito al bere e ai piaceri, antiborghese, tendenzialmente
trasgressivo e avanguardista, e dunque appunto “poeta maledetto”.
Questa definizione
ovviamente rimanda ai simbolisti francesi, ma è piuttosto estranea alla
letteratura italiana, rappresentata per lo più da nobili e buoni borghesi; e neppure si può
correttamente applicare alla scapigliatura milanese e semmai si potrà riferire,
pur tra notevoli differenze, a due importanti poeti di poco successivi a
Pascoli: Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che non per nulla nella
raccolta Il libro dei frammenti (1895) si ispirò
soprattutto a Verlaine, ma anche a Rimbaud e Leconte De l’Isle e che nella vita
visse miseramente da bohémien passando da una sventura
all’altra; e Dino Campana, ribelle e irregolare, anch’egli segnato da una vita
ostile e tormentosa, conclusasi nel manicomio di Castelpulci.
Ma Pascoli come può
rientrare in questa tipologia, come può meritarsi la definizione di
“maledetto”? Francesca Sensini segue la strada più obiettiva e funzionale,
ricostruendo minutamente e con una sterminata mole di appropriate
documentazioni (lettere, testimonianze e testi inediti, biografie sepolte nel
tempo) che non ammette lacune e presentando così un personaggio del tutto
diverso da come lo dipinge la vulgata; intanto un bell’uomo, estroverso e
allegro, capace di esercitare un notevole fascino su chi aveva modo di
incontrarlo e conoscerlo, un uomo che stringe legami con varie donne nel corso
della sua vita (accessoriamente non disdegnava la frequentazione dei bordelli),
con il progetto di innamorarsi e magari formarsi una famiglia sua. Certo, aver
perso nel giro di due anni il padre, la madre e due fratelli era stata per lui
un’esperienza sconvolgente, ma ciò non toglie che la sua vita da studente a
Bologna sia trascorsa nel modo più vivace e coinvolto, lontano da sentimenti
luttuosi legati a un trauma, sia sul piano poetico che soprattutto sul piano
dell’impegno politico, che lo ha portato a farsi interprete attivo di quel
socialismo e di quella convinta difesa delle classi più deboli che non
abbandonerà più, anche se con posizioni non sempre condivisibili nella fase
finale della sua vita (come il suo appoggio interventista e nazionalista alla
guerra alla Libia nel 1911 con il famoso discorso La grande proletaria
si è mossa); e tuttavia non si deve dimenticare che, in clima di nascente
“sogno americano” con il poemetto Italy (1905) sarà il primo
scrittore italiano a denunciare l’emigrazione di massa in generale e quella
negli Usa in particolare.
Pascoli dunque fu negli
anni giovanili un intraprendente e attivissimo protagonista della vita politica, quella che egli vive
in modo totale e assoluto, per nulla rassegnato, per nulla – e qui non posso
non ricorrere a quest’altra sua parola-simbolo – in cerca di un “nido” che lo
tranquillizzi dalle turbolenze attraversate nei suoi voli. E che Matera, dove
fu assegnato al primo incarico di professore, non dovesse essere per lui,
romagnolo di nascita e bolognese per frequentazioni, il più gradito dei nidi
sembrerebbe ovvio; eppure ci andò per scoprirvi quel mondo sconosciuto, così
come poi approdò a Massa, vicino al luogo di nascita del Carducci che, con
moderazione aveva cominciato a proteggerlo, e come più tardi approdò a Livorno
dove forse nel 1888 s’innamorò; lei era Lia Bianchi, figlia del musicista
Emilio e a sua volta pianista (la città labronica era allora uno dei maggiori
centri musicali d’Italia, trascinata dall’esempio del compositore Pietro
Mascagni e lì nacque l’interesse del poeta per la musica lirica); e pare che
Giovanni avesse ordinato per Lia un anello d’oro per fidanzarsi in vista del
prossimo matrimonio.
Ma questo progetto di
vita futura naufragò miseramente, come pure naufragherà nel 1896 quello con
Imelde Morri e con la sua allieva Giovanna Pia qualche anno più tardi,
perché intanto si era consolidato quello che l’autrice definisce il
“super trio”, che dopo il matrimonio di Ida diventa un duo: Giovanni,
appunto, e le sorelle, della quali lui si era fatto carico non prevedendo
quanto avrebbero pesato negativamente sulla sua vita. E allora qui l’aggettivo
maledetto calza a pennello in un’altra accezione e cioè quella di colui che
affronta, senza riuscire a opporvisi, una sorte malevola che, dopo la morte dei
genitori e di numerosi fratelli, lo porta ad assumere, anche coprendosi di
debiti, il ruolo di padre per lda e Maria delle quali, per dirla in modo forse
troppo deciso ma non lontano dal vero, resterà schiavo; e dunque nessun
matrimonio bensì una vita sempre più pesante e oppressiva e le loro case,
fino al rifugio-esilio in Garfagnana, non rappresenteranno certo il nido della
quiete ma altrettanti prigioni sempre più asfissianti, dove l’unica salvezza
sarà la persistenza delle sue idee politiche giovanili che in buona parte si
travaserà nella sua attività letteraria, la sola via di fuga (insieme al
laudano e al vino) da una vita tormentata, una vita appunto maledetta.
È inevitabile che a una
conoscenza distorta del personaggio corrisponda una valutazione distorta delle
sue opere e al loro rifiuto se si scostano (e quanto si scostano) dai canoni
allora prevalenti, compresi tra il classicismo carducciano e l’estetismo
dannunziano. Opportunamente l’autrice affronta questo argomento
partendo dagli studi del Pascoli su Dante, allora (e adesso) considerato
terreno di ricerca esclusivo degli specialisti, come nel caso dei componenti
della Società dantesca italiana che rappresentano l’ortodossia e che dunque
considerano “una stravaganza” le ricerche pascoliane, come quelle di chiunque
altro osi scostarsi dalle loro presunte verità. E appena il caso di ricordare
di passaggio che sono solo poche decine i documenti certi riguardanti Dante e
tutte le altre soluzioni dei misteri della sua vita e della sua opera ricadono
nel campo non delle verità, ma delle ipotesi e delle interpretazioni, come
appunto quelle avanzate dal Pascoli fondate sulla teoria del “codice cifrato” e
orientato su un’esegesi mistica più che politica, espressione del “gusto e
della cultura di fine secolo, estetizzante e simbolista”, come precisa
l’autrice; e così si ritorna a quei poeti francesi maledetti e si rafforza il
senso dell’attribuzione di questo aggettivo al poeta italiano.
Anche per la valutazione
dell’opera poetica del Pascoli si è imposto il criterio dell’autorità di chi lo
ha pronunciato, in questo caso il più accreditato intellettuale italiano della
prima metà del 900 e cioè Benedetto Croce. Per lui la “poesia pascoliana è
un’irritante mistura di spontaneità e artifici”, che propone un ideale di “vita
quietistica e immobile, esposta alla destabilizzazione del dolore” concentrata
sulle le piccole cose, su un mondo ridotto e pieno di stupori che trova nel
“fanciullino” il suo emblema. Questa lettura parziale, e soprattutto fortemente
riduttiva oltre che superficiale, è stata poi ripresa in vario modo – con rare
eccezioni – dai critici che si sono occupati della poesia del Pascoli e ahimè
dagli autori dei manuali e delle antologie che la hanno passivamente trasmessa
a decine di generazioni di studenti (utilissimo in proposito il capitolo Pascoli
a scuola).
Infine Francesca
Sensini, per rimuovere la fuorviante vulgata sulla poesia del Pascoli,
ribadisce il suo legame con i simbolisti francesi, ma anche con il poeta
americano Poe, e quindi la sua dimensione internazionale, nel nome di uno
sperimentalismo nascosto dietro e anzi dentro le piccole cose che richiedono
quel lavoro di ricerca necessario al poeta per svelare il loro profondo e
misterioso significato; basti leggere in proposito la poesia-manifesto Contrasto:
“Prendo un sasso tra mille, a quando a quando: / lo netto, arroto, taglio,
lustro, affino; […] ecco un rubino; / vedi un topazio; prendi un’ametista”;
e così la sua poesia risponde alla definizione appropriata che ne diede d’Annunzio:
“un diamante nell’oscurità della terra”.
Infine una riflessione
che offre ulteriore sostegno alla nuova visione del poeta proposta da Francesca
Sensini; Genova è stata la città nella quale sul finire dell’Ottocento furono
vendute più copie di Myricae: perché? Perché il capoluogo ligure
era allora il maggior centro italiano di interesse per la poesia simbolista
francese, non solo per l’attività che vi svolgeva il già ricordato Ceccardo
Roccatagliata Ceccardi, ma anche perché vi furono fondate le riviste “Endymion”
(1897), “Iride” (1897-1900), “La vita nova” (1902-1904) e “Ebe” (1905-1907),
sulle quali pubblicavano i loro versi giovani poeti affascinati da Verlaine e
da Rimbaud (che nel 1878 a Genova era stato, lamentandone il degrado dei
vicoli) e tra loro quell’Alessandro Varaldo che pure collaborava al foglio
fiorentino dal titolo che parlava da solo: “La Bohème”. E quello era un mondo
che, proprio per la consapevolezza della miseria delle “piccole cose” della
realtà, cercava ogni possibile via per uscirne, dall’alcol alla droga e via via
fino al sogno e Pascoli appunto ha sempre sognato, così come ora Francesca
Sensini ha sognato di riuscire a proporre una nuova dimensione del poeta
Pascoli; e dopo l’ultima pagina di questo suo libro, credo proprio di poter
affermare che il suo intento sognatore si è del tutto realizzato.
Francesco De Nicola
(novembre 2020)
L’AUTRICE DEL LIBRO:
FRANCESCA SENSINI è professoressa associata in Italianistica
all’Université Côte d’Azur (Nice). Dottoressa di ricerca dell’Université Paris
IV Sorbonne e dell’Università degli Studi di Genova, dedica le sue ricerche
alla letteratura italiana di Otto e Novecento, all’ermeneutica dell’antichità
classica e agli studi di genere in ambito letterario. Tra le sue
pubblicazioni: Dall’Antichità classica alla poesia simbolista: i «Poemi
conviviali» di Giovanni Pascoli, Bologna, Pàtron editore, 2010; Una
donna moderna del secolo trascorso: Marise Ferro giornalista, Roma, Aracne,
2020.
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