venerdì, agosto 15, 2025

Pippo Oddo: Ferragosto, la festa della Madonna di Muratti, mastro Ciccio il sellaio e i martiri del Risorgimento


Pippo Oddo

PIPPO ODDO

La gente ha la memoria davvero corta. Ma la tribbunedda, angusta nicchia con l’immagine a stampa della Madonna Assunta, continua a fare silenziosa mostra di sé sul muro della modesta casa di via Procida. Ė ancora lì, grazie a Dio, di fronte alla via Murat, nel quartiere Ultime Case, a Villafrati. 

E, benché nell’ultimo cinquantennio nessuno l’abbia mai più chiamata Maronna o Bedda Matri di Muratti, la Beata Vergine sembra appena uscita dalla bara. Presenta il volto radioso di sempre e appare tutt’altro che stanca di raccontare (a chiunque voglia dedicarle uno sguardo) la sua assunzione anima e corpo in Cielo, voluta dal Signore affinché, quando verrà il momento del Giudizio Universale, possa accogliere amorevolmente tutti gli altri figli di Eva che hanno saputo far  tesoro della divina misericordia. Mater Generosa, dunque, oltre che Gloriosa. Eppure, se qualcuno provasse a chiedere in giro per il paese notizie di prima mano sull’ospite di quell’antica edicola votiva, non mi meraviglierei se persino certi anziani che abitano fin dalla nascita in quei paraggi gli rispondessero di non averne. Poco o niente ne sanno addirittura gli stessi gelosi custodi della bella tradizione in forza della quale ogni anno, il giorno della festa del Corpus Domini, lo spazio antistante la tribbunedda assume l’aspetto di un tappeto variopinto di petali di ginestra, margherite di campo e rose canine, su cui sosta, accolta da corali canti di giubilo, la processione del SS. Sacramento con il prete in cotta e stola sotto il baldacchino. 

Personalmente posso testimoniare che, a parte una vecchietta che la chiama tribbunedda di la Bedda Matri (e ricorda per averlo sentito dire da suo nonno, che “prima ci facevano la festa”), molti degli stessi abitanti del quartiere ignorano persino se l’edicola ospiti un Santo o una Santa. Conoscessero i testi classici, non esiterebbero a chiedersi con Seneca: «Quis habitat deus?», nutrendo il sospetto che qualche santo o santa, più o meno importante, deve pure abitarci, nella benedetta tribunedda della via Procida. Insomma, ne avrebbe ben donde per gridare allo scandalo, l’oscuro stampasanti palermitano che un paio di secoli fa realizzò quella gloriosa immagine della Madonna Assunta. Né si può dubitare che come minimo si farebbe la croce con la mano sinistra il pio villafratese che si affrettò a ospitarla nell’apposita nicchia scavata sul muro della propria casa.

 A quei tempi gli abitanti del villaggio erano quasi tutti nativi di altri paesi. Era quindi logico che si sentissero insicuri, in preda all’ansia e al senso di smarrimento per la lontananza dal vecchio campanile, inteso (con Vito Teti) come «centro spaziale e mentale, a partire dal quale orientarsi e percepirsi nello spazio e nel mondo». Dovevano dunque inventarsi alla svelta qualcosa per ritrovare la serenità perduta. E, a prescindere da chi mise a disposizione il muro, nessuno può dubitare che la tribbunedda di la Bedda Matri divenne presto per molti dei nuovi arrivati un riferimento forte, non fosse altro perché la casa scelta per ospitarla sorgeva allora al confine tra il Casale di Sopra e le limitrofe vigne della Montagnola, prive di autentici recinti. Consacrare quella nicchia alla Beata Vergine Assunta equivaleva insomma a “domesticare” lo spazio circostante, direbbe Ernesto De Martino. Era probabilmente la sola risposta che poteva ottenere la domanda di sicurezza espressa dagli abitanti del quartiere e da tutti i viticultori del villaggio, la cui sopravvivenza dipendeva anche dalla possibilità di fare una buona vendemmia: cosa che non sempre si verificava, vuoi per ragioni meteorologiche, vuoi perché la contrada era infestata da pericolosi ladri di campagna, che non si facevano certo scrupolo di rubare a man salva l’uva maturata con il sudore altrui.  

 Per farla breve, la tribbunedda finì per assolvere al ruolo di spazio sacro di non secondaria importanza, di punto fermo, nuovo centro di orientamento attraverso il quale gli abitanti del quartiere cominciarono a rapportarsi con il resto del mondo, concepito come esteso informe. Bisogna comunque riconoscere, con il senno del poi, che tutto ciò era in qualche modo prevedibile: «Le immagini dell’Assunta, disseminate negli spazi quotidiani – spiega opportunamente Sabrina Carlini –, rispondono alla logica di una rifondazione territoriale; sono segno della sua potenza, traslata sul territorio ordinariamente vissuto e quindi alla portata di tutti». Non si può dunque dar torto a Vito Teti: «Se è il centro a conferire orientamento, è la religione che fonda la possibilità di affermare il centro». Religione popolare, beninteso, consumo del sacro con approccio superstizioso e rituali extraliturgici che rimandano al culto del deus loci dell’antica Roma. 

Resta nondimeno il fatto che la tribbunedda è stata per circa due secoli motivo di conforto per tutti gli abitanti del paese e per gli stessi forestieri costretti ad  attraversare, a piedi o a cavallo, l’attuale via Procida, l’arteria più importante (dopo il Corso) della Villafrati arcaica. Non tanto perché da essa si dipartivano i principali viottoli di campagna, quanto perché quella strada consentiva di raggiungere con poche falcate la trazzera regia che collegava la Capitale dell’Isola alla stragrande maggioranza delle altre città del regno. La lampada votiva di notte rischiarava la strada ai viandanti e, dall’estate 1886 al 1° febbraio 1959, rappresentò una sorta di stella polare per gli utenti del Suparbanu, treno subalbano che partiva alle cinque del mattino dalla stazione sotto il paese e arrivava a Palermo (distante poco più di 33 km) quasi due ore e mezza dopo.

E se ce n’era bisogno, di quella tremula fiammella! Basti considerare che ancora nel 1927 era la sola lampada accesa nottetempo nel quartiere e che fino a metà degli anni ‘50 la via Procida si presentava come una pista infida, priva di massicciata. Se d’estate era fin troppo polverosa, nella brutta stagione ospitava diversi cumuli di fango che i residenti erano costretti ad ammonticchiare ai bordi della strada, per poter passare. Bisognava attendere il memorabile «sciopero alla rovescia» del 9 gennaio 1956 (che si concluse con l’arresto di cinque manifestanti e la denuncia di altri sette), perché la via Procida cominciasse ad esser baciata dall’asfalto… e non senza il rammarico dei monelli del quartiere che non ebbero mai più modo di giocare, né a “pissi pissi” (con buffe movenze che volevano imitare il volo delle libellule), né ai “banditi” fra le montagne di fango rappreso, rese meno infide dalla presenza rassicurante di quell’immagine della Vergine Assunta.  

La sistemazione della via Procida segna comunque, nel bene e nel male, la fine di un’epoca: la massicciata e l’asfalto che coprirono la plurisecolare vergogna fecero da pietra tombale alla memoria e allo stesso nome della Bedda Matri di Muratti. Il  curioso appellativo, a voler prendere per oro colato quanto mi dicevano mia madre e soprattutto mio nonno (classe di ferro 1865, passato a miglior vita il 20 febbraio 1960), le era stato attribuito dopo l’unità d’Italia da un mio bisnonno, mastro Ciccio il sellaio, personaggio estroso e imprevedibile cui, per quanto mi riguarda, ho avuto modo di accostarmi per la prima volta una trentina di anni fa, e non senza respirare a pieni polmoni polvere e muffa in diversi archivi, comunali e dello Stato, dove speravo di trovare qualche sua traccia: da Menfi a Villafrati, da Palermo ad Agrigento, a Trapani, a Roma, a Verona…

Tornando a bomba, il vero motivo per cui l’immagine devota dell’Assunta cominciò a esser chiamata Bedda Matri di Muratti è presto detto: perché la tribbunedda sorgeva (come adesso) quasi di fronte alla via Murat, che i popolani cominciarono a chiamare appunto “Muratti” già nel 1865, quando una delibera consiliare scelse di adottare l’impegnativo toponimo, forse su suggerimento dello stesso mastro Ciccio il sellaio, che abitava nel quartiere Ultime Case fin dal 1849, quando, braccato dalla polizia borbonica, vi si trasferì sotto falso nome da Menfrici, ridente cittadina della provincia di Girgenti. Rivoluzionario di lungo corso, l’uomo non si stancava mai di additare ad esempio il martire di Pizzo immortalato da un canto popolare come Jachinu Muratti. D’altronde mastro Ciccio Barbera aveva avuto un ruolo rilevante nelle vicende del Risorgimento siciliano dal 1848 al 1860. Fossero stati pochi i pericoli cui era andato incontro nel biennio 1848-49, lo scapestrato giovane nel novembre 1856 fu uno dei più convinti sostenitori della sfortunata insurrezione repubblicana organizzata, con il beneplacito di Mazzini, da Francesco Bentivegna. 

E si beccò la condanna a morte per aver fatto parte della «banda armata nella quale esercitò le funzioni di porta bandiera della rivoluzione con la quale si sovvertiva l’ordine pubblico». Ma chiese la grazia al sovrano ed ebbe commutata la pena a 18 di ferri da scontare, con una grossa palla di piombo attaccata alla caviglia, nel bagno penale di Favignana. Liberato dai ferri nel 1860, mastro Ciccio andò a dissotterrare una giara in cui aveva nascosto il tricolore del 1856 e non perse tempo a rimettersi a servizio della patria che si apprestava ad estendere i confini fino alle Alpi. Il 23 giugno 1860 partecipò alle esequie solenni che il governo della dittatura garibaldina volle tributare a Corleone ai resti di Francesco Bentivegna, fucilato a Mezzojuso il 20 dicembre 1856. Sulla tomba del martire lasciò il glorioso vessillo, che era stato causa della sua condanna a morte. E corse ad arruolarsi tra i Cacciatori dell’Etna, per guadagnarsi (dopo la battaglia di Milazzo) la stelletta di sottotenente, che  onorò fino al marzo 1861, quando fu congedato assieme a tanti altri garibaldini.

 Ma tutto questo non gli rese per nulla più agevole il resto dei suoi giorni. A causa delle false generalità che gli avevano consentito di sfuggire ai lacci della polizia borbonica, dopo la proclamazione dell’unità d’Italia, l’irrequieto artigiano dovette aspettare ancora circa 25 anni, abbandonare per qualche tempo moglie e figli e recarsi a piedi a Roma (dove dimorò per ben sette mesi durante i quali non diede mai tregua ai suoi ex compagni imboscati negli uffici ministeriali) per farsi riconoscere un assegno vitalizio in qualità di danneggiato politico ai sensi di una legge dell’8 luglio 1883. Ottenuto il prestigioso riconoscimento, che fra l’altro gli consentì di comprarsi finalmente una casa terrana a pochi passi dalla tribbunedda, il Nostro volle onorare una promessa fatta nel 1861 alla futura Bedda Matri di Muratti: se la Santa Vergine gli avesse fatto ottenere la pensione che gli spettava, lui, mastro Ciccio il sellaio, portabandiera della rivoluzione, le avrebbe organizzato a proprie spese ogni anno, a Ferragosto, una festa come Dio comanda

 Mantenne la parola. E così, grazie alla robusta fede mariana di un patriota scervellato, che i bigotti di mezza Sicilia avevano sempre considerato un “diavolo rosso”, l’antica edicola votiva ogni mezzo agosto cominciò a calamitare per 18 anni difilato l’intera popolazione villafratese, sprizzante gioia da tutti i pori nell’ammirare, di giorno, decine di monelli prodursi nella corsa nel sacco e nel tiro alla fune in mezzo alla polvere della via Procida, e di sera, ingurgitando grosse fette d’anguria attorno alla tribbunedda, adorna di fiori, serti d’edera e festoni di carta colorata, e illuminata da singolari lucerne ad olio, rattenuto dentro giganteschi gusci di crastuna (chiocciole).

  Poi, il 5 maggio 1905, dopo avere acceso per l’ultima volta il lumino a Maria Vergine, l’invitto portabandiera morì d’infarto davanti all’uscio di casa sua, senza nemmeno poter dire: Bedda Matri di Muratti, aiutami! La festa attorno alla tribbunedda non si fece più. E nessuno ebbe poi mai a sospettare che quel birba d’un vecchio sellaio avesse potuto declinare davanti al Tribunale Celeste le stesse false generalità (Francesco La Barbera) presentate nell’autunno 1849 al prete che gli somministrò il sacramento del matrimonio e, il 16 ottobre 1857, ai seriosi giudici del Consiglio di guerra di guarnigione della provincia di Palermo, che lo stesso giorno lo condannarono alla pena capitale col beneficio del ricorso alla sovrana clemenza, «attesa di lui spontanea presentazione». Ma forse l’intercessione della Bedda Matri di Muratti lo fece accogliere dal Padre Eterno con la stessa benevolenza accordatagli dagli amici del Ministero che, pur di ammetterlo al godimento dei benefici spettanti ai danneggiati politici, avevano chiuso più di un occhio sulla discordanza tra l’estratto di nascita rilasciato dal Comune di Menfi, in cui si poteva leggere il cognome Barbera, e la sentenza del Consiglio di Guerra, che aveva inflitto la condanna a morte a Francesco La Barbera.

 

  Pippo Oddo 

Palermo 15 agosto 2016

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