domenica, agosto 03, 2025

Genocidio e pulizia etnica Israele sconfitto dalle parole


Guido Rampoldi

L'ong B'Tselem, composta da palestinesi e da israeliani, è tra quelle che usano per Gaza il termine "genocidio". L'antisemitismo: Attribuire le accuse a esso è impossibile se vengono dal mondo ebraico. 

Affrontare finalmente le parole terribili con le quali l'Europa e l'ebraismo libertario cominciano a raccontarsi la guerra di Gaza: genocidio, pulizia etnica, apartheid. Oppure continuare a rifiutarle e barricarsi dietro perifrasi autoassolutorie, rassicuranti – danni collaterali, l'esercito più etico della Terra – e alzarle come scudi rivolti contro l'antica ostilità del mondo, l'evidenza, la cecità di chi non può intuire la grandezza del disegno divino che si compie. Israele pare arrivata in un territorio accidentato dove la sua storia si biforca nei due opposti vocabolari della guerra. È un bivio esistenziale: la sordità opposta all'Europa rischia di condurla a tagliare le proprie radici universaliste, l'accondiscendenza americana la spinge verso l'isolamento e al definitivo accomodarsi in un arcaico tribalismo mediorientale.

La scelta del governo Netanyahu pare scontata: non potendo tornare indietro senza dissolversi, cercherà metodi cosmetici per rendere convincente la propria narrazione. Il tempo a disposizione non è molto. A settembre Londra e Parigi potrebbero dare corso alla promessa di riconoscere uno stato palestinese; e in prospettiva preoccupa l'eventualità che sanzioni mutilino quel 28 per cento delle esportazioni israeliane dirette al mercato Ue (o perlomeno le esportazioni di armi, nella scia dell'iniziativa già adottata dalla Slovenia). Ancor più urgente per il governo israeliano è convincere l'ebraismo della cosiddetta diaspora, dove è in crescita la minoranza assai critica verso la guerra. 

La comunicazione

È «la battaglia della percezione», come la chiama Drod Eydar, già ambasciatore israeliano a Roma, sul giornale devoto a Netanyahu, Israel Hayom. «Come una campagna militare coinvolge fanteria, tanks, forze navali e intelligence – spiega Eydar – così i nostri messaggi dovrebbero prendere il nemico di sorpresa».

Ma per riuscire dobbiamo dotarci «di una grande organizzazione ricca di risorse, imbottita di esperti cibernetici, specialisti in Intelligenza artificiale, graphic designer, professionisti della pubblicità, scienziati del comportamento, ufficiali dell'intelligence», oltre a dipartimenti che tengano i contatti all'estero con comunità ebraiche, partiti e media pro Netanyahu. Eydar non è noto per la sottigliezza («Dobbiamo distruggere Gaza», andava proclamando nel 2023), ma in questo caso gli va riconosciuto il merito di introdurre una questione che è centrale in questo strano conflitto e in quelli futuri, guerre ibride nelle quali «vincere» è anche «convincere». 

Coordinata dal ministero degli Affari strategici, la propaganda israeliana finora aveva reso risultati eccellenti al governo Netanyahu. Per esempio nel 2021 i rapporti che denunciavano l'apartheid israeliano nel West Bank, ripresi con evidenza dal New York Times, in Italia non ebbero alcuna eco. Ma la guerra di Gaza ha dimostrato che i filtri in passato garantiti dal vasto giornalismo amico non sono affidabili quando entrano in gioco internet, i social e la possibilità di trasmettere immagini con i telefonini, quando insomma l'informazione si adegua a un modello caotico e orizzontale. 

Inoltre l'ingresso in campo della giustizia internazionale, per la quale l'identità di chi ha commesso il reato è secondaria rispetto al "che cosa" è accaduto, ha permesso di identificare le azioni di Hamas e di Israele in termini nitidi, in certa misura "obiettivi", cruciali perché sono non soltanto descrittivi, ma anche prescrittivi: e cioè possono sollecitare sanzioni. Infine scansare le accuse a Israele attribuendole automaticamente ad antisemitismo è diventato ormai un esercizio ridicolo, dato che spesso a formularle è un segmento dell'ebraismo, israeliano e no. 

La parola "genocidio"

Così è accaduto che nella «battaglia della percezione» il governo Netanyahu abbia spadroneggiato per diversi mesi, poi è cominciata la disfatta. Adesso parole fino a ieri evitate da gran parte dei media europei, quando non disprezzate come prova di antisemitismo, stanno diventando di uso corrente. Non senza qualche rischio. Innanzitutto: genocidio. Anche critici feroci del governo Netanyahu preferiscono «ecatombe» (Michele Serra) o «carneficina» (Raphael Glucksmann) per una precauzione del tutto comprensibile: nel linguaggio parlato «genocidio» implica la volontà di sterminare un intero gruppo umano, come fu nell'Olocausto, che anche per questo rimane un evento unico nella storia umana, e tale dovrebbe restare . Hamas e Israele lo banalizzano continuamente, sovrapponendolo alla guerra di Gaza con narrazioni simmetriche che assegnano al nemico il ruolo di «nuovi nazisti».

Il termine più esatto per descrivere la guerra israeliana e il pogrom di Hamas è «pulizia etnica». Ma «pulizia etnica» comporta un altro problema: non è riconosciuto come specifica fattispecie di reato dalla legalità internazionale, motivo per il quale le corti applicano in sua vece proprio il reato di «genocidio». 

Nel denunciare appunto come «genocidio» la guerra di Gaza, l'ong per i diritti umani B'Tselem, composta da palestinesi e da israeliani, motiva così: la fattispecie «genocidio» non richiede lo sterminio di tutti i membri di un determinato gruppo, ma piuttosto si riferisce a ogni atto commesso con l'intenzione di distruggere una società e rendere impossibile che essa continui a esistere. Israele sta infliggendo a Gaza una sistematica distruzione: uccisioni di massa di civili, espulsione forzata di milioni, distruzione di case e di infrastrutture, la fame come arma, bombardamento di ospedali e cliniche, cancellazione di scuole, università e istituzioni culturali, collasso di ogni sistema civile che sostenga la vita. Questi non sono «errori collaterali». Sono l'intenzionale smantellamento di una società. 

L'intervento di Grossman

In una bella intervista a Francesca Caferri su Repubblica, lo scrittore David Grossman ha testimoniato quanto sia doloroso per il popolo sopravvissuto all'Olocausto arrivare alla consapevolezza che a Gaza Israele sta commettendo quello che tecnicamente è un genocidio. La coraggiosa posizione di Grossman non è dissimile da quella espressa nel 1982 da Tikkùn, la più raffinata rivista dell'ebraismo americano. Commentando il massacro di palestinesi nel campo di Sabra e Chatila, compiuto dalla Falange libanese con il probabile consenso dell'esercito israeliano, Tikkùn affrontò a questo modo l'enormità della parola «genocidio»: per quanto l'Olocausto si stagli come un evento unico nella storia, scrisse, esso può essere scomposto in una somma di azioni criminali ripetibili in qualsiasi tempo e da qualsiasi gruppo umano.

Gaza appartiene alla mostruosa famiglia dei genocidi/pulizie etniche? Per difendersi e difendere la propria asserita statura etica, l'esercito israeliano afferma che i massacri di gazawi inermi non sono voluti: si tratterebbe di «danni collaterali». E la fame, un'invenzione della propaganda palestinese, che si vuole straripante, egemone. Se fosse così, il governo Netanyahu dovrebbe essere ansioso di catapultare giornalisti occidentali nella Striscia. Invece non li lascia entrare (se non per poche ore e sorvegliati), chissà perché.

Ora prepariamoci alla controffensiva mediatica israeliana. 

Cosa succede ora

Secondo il sito Middle East Eye, il procuratore della Corte penale internazionale (Icc) Karim Khan è stato «avvertito» che se non avesse ritirato l'ordine di cattura per crimini contro l'umanità contro Netanyahu, lui e l'Icc sarebbero incorsi in ritorsioni. Latori del messaggio, reiterato: un legale israelo-americano, Nicholas Kaufan; il ministro degli Esteri britannico, all'epoca il conservatore Cameron; e un notabile repubblicano del Senato Usa, Lindsey Graham.

Poco prima la sicurezza interna dell'Icc avrebbe avvertito Khan che una squadretta del Mossad sbarcata all'Aja rappresentava per lui una minaccia. Subito dopo, in circostanze assai opache, un'impiegata dell'Icc ha accusato Khan di molestie. Invocando il ricorso al Mossad e ad altri strumenti «ibridi» nella «battaglia della percezione», l'ex ambasciatore Eydar forse ha soltanto portato allo scoperto operazioni già avviate.

Domani.it, 3 agosto 2025

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