lunedì, agosto 18, 2025

DE MAURO AL POLIZIOTTO MENDOLIA: “NON BABBIATE, TIRATE FUORI I PICCIOTTI”

Vincenzo Vasile e Mauro De Mauro

di VINCENZO VASILE

Doveva essere il ’65, massimo ’66, del secolo scorso. Non c’era il vivavoce all’epoca nei telefoni della Questura. Ma la voce roca di Mauro De Mauro, imitata dal commissario Nino Mendolia, con un’orecchio appiccicato alla cornetta e la mano sul microfono, ci tirava in qualche modo su il morale: “Nino, liberate quei picciotti devono tornare a casa, non babbiate”. “Picciotti” (ragazzi) e “babbiate” (scherzate) era detto calcando i toni e le doppie, come succede a chi non essendo Siciliano voglia imitarne il dialetto. 

Nino (diventerà capo della Mobile e infine questore), imitatore dell’imitatore De Mauro, ci aveva appena arrestato: eravamo noi i “picciotti” che ne avremmo ricavato imputazioni per cinque o sei articoli del codice penale in un processo poi risolto in una pioggia di assoluzioni. In quella fazzolettata di adolescenti tra i sedici e i diciott’anni, puniti per un corteo pacifista rigorosamente non autorizzato, finito a manganellate al porto dove era alla fonda una portaerei americana di ritorno dal Vietnam, c’erano alcune ragazze. E tra loro appunto Junia De Mauro, la figlia del giornalista del L’Ora più noto a noi della “generazione del Vietnam” palermitana. Che adesso con una semplice telefonata otteneva la nostra liberazione. 

Noi ragazzi dei ‘Comitati di istituto’ che agitavamo le acque studentesche dei licei di Palermo, leggevamo quella firma di punta non solo sul giornale della sera di Palermo, ma anche nel giornale nazionale del mattino preferito, un giornale dalla grafica e dalla impostazione moderna e graffiante. Si stampava a Milano, si chiamava Il Giorno, aveva il logo di un giovane con i capelli arruffati e il pigiama che spalancava la finestra, pubblicava un supplemento per i ragazzi, con i cartoon, le inchieste sui giovani. Articoli chiari e brevi, titoli senza cincischiamenti, molta attualità e cultura alta e bassa. Inviati di valore, Bocca, Valli, Pirani, Brera, Forcella, Aspesi. Era appena uscita una corrispondenza di Mauro sul Comune di Palermo infeudato da Gioia Lima e Ciancimino, con un titolo che aveva ribattezzato il Palazzo delle Aquile “La casa del peccato”. Quei pezzi per il Giorno, De Mauro non li scriveva, li dettava a braccio con tutte le virgole a posto al dimafonista milanese, dalla sua scrivania avvolta da una nuvola azzurra di fumo, nel palazzo di piazzetta Francesco Napoli che ci ospitava per riunioni pomeridiane nelle ore in cui il salone della redazione era quasi deserto. Assistevamo a quella prova di bravura dall’angolo opposto dello stanzone: in verità era Junia a fare da padrona di casa, essendo appunto il giornale la sua seconda casa. 

Solo tanti anni dopo avrei saputo che Mauro fu assunto in pianta stabile negli anni Cinquanta dopo che s’era rivolto al giornale con il quale collaborava saltuariamente in un periodo di particolari difficoltà, acuite dal fatto che Junia ancora bambina doveva affrontare una urgente e costosa operazione chirurgica per una malformazione cardiaca.  L’Ora lanciò una sottoscrizione, il viaggio della speranza di Mauro Elda e Junia potè essere realizzato con successo. Negli anni successivi rispetto a quella sera del nostro arresto nel ‘68 per il terremoto la famiglia De Mauro passò qualche notte in redazione, lì radunata per paura delle scosse. 

Fu proprio quella sera in Questura la volta che chiesi a Junia di suo padre. Si sapeva del suo passato fascista nelle file della Decima Mas.  Ora scriveva per un giornale che era finanziato dal Partito comunista. E trattava i capi della polizia a tu per tu, tanto da ottenere per sua figlia e per noi con un colpo di telefono la libertà. 

“Scusa Junia, ma chi è tuo padre?”. “Mio padre - rispose Junia senza esitazioni, come quando hai molto riflettuto su un argomento e puoi trattarlo con parole appropriate - era alla nostra età un anarchico di destra; ora il suo anarchismo è maturato in una versione, in una variante di sinistra. È un anarchico che lavora con i comunisti, e che ha alcuni amici democristiani”. Parole che quando De Mauro sparì nel nulla e poi in tutti questi anni di inchieste depistaggi fango e dolore mi tornano in testa come una fitta pulsante. 

Nel ’68 il papà “anarchico” di Junia me lo ero ritrovato al fianco con una bottiglia di whisky mentre assaltavo la gradinata del Teatro Massimo per contestare una “Prima” della stagione lirica irresponsabilmente confermata all’indomani della strage poliziesca dei braccianti ad Avola. Si era arrampicato a cavalcioni del leone di marmo scolpito dal nonno di Rutelli.  

Quando De Mauro sparì, lo seppi davanti alla televisione di un albergo di Pesaro, dove seguivo il Festival del nuovo cinema. A condurre il telegiornale c’era un annunciatore, che non nascose l’emozione quando disse: “I giornalisti del L’Ora di Palermo e i familiari di Mauro De Mauro hanno lanciato un appello… Mauro De Mauro è scomparso…”. Donatella S., che era stata compagna di liceo di Junia al Garibaldi, con noi da Pesaro in teleselezione (era l’anno in cui le utenze di tutta Italia furono collegate senza passare dal centralino) le parla, ci riferisce che Mauro non è tornato a casa, che i familiari già hanno perso la speranza di rivederlo, né vivo né morto. “Piangeva Junia?”. “ No, ma era come se avesse già pianto tutte le lacrime”. 

Così sarebbe stato, Mauro non tornò più a casa. Non potevo immaginare che i cinquanta anni successivi avrebbero confermato la tragica previsione confidata da Junia a Donatella, e che alla fine ci sarebbe rimasta questa sola certezza. Non potevo pensare che avrei fatto lo stesso mestiere di De Mauro, che lo avrei imparato nei primi passi professionali proprio nel suo stesso giornale, che avrei letto in mezzo secolo migliaia di pagine giudiziarie e scavato nelle pieghe di quel mistero senza raggiungere alcuna verità. Oggi che non c’è più quasi nessuno dei testimoni di quegli anni, non c’è più Junia, non c’è più Donatella, non c’è più quasi nessuno. E le pagine del mio archivio sulla vicenda di De Mauro mi appaiono come una antologia di Spoon River, nella quale interrogo i miei fantasmi su quegli anni della mia giovinezza, sulla Palermo laida bella e infelicissima che inghiottì un suo cittadino onorario che aveva avuto il torto di voler fare il suo mestiere. 

In un volumetto che scrissi insieme a un altro ex del L’Ora, Franco Nicastro, ho ragionato sul complesso incastro di depistaggi e montature che ha chiuso in uno scrigno secondo me ormai impenetrabile la verità su quell’omicidio, che per il mestiere che facciamo significò una rivelazione non da poco: la libertà di informazione è minacciata mortalmente dalla mafia, che non concede zone franche. 

Un’intuizione che era presente nel primo approccio della Procura di Palermo risulta abbandonata e contraddetta dalla sentenza di primo grado: perché non considerare connesse e integrate anziché contrapposte le due piste principali finora emerse? Perché non scavare sull’ipotesi di un’esecuzione motivata dallo scopo di mettere a tacere chi come Mauro fu in grado di intuire che la morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei non fu un incidente, e insieme di sapere in virtù dei suoi vecchi rapporti con il principe Borghese e di informazioni di prima mano raccolte negli ambienti mafiosi, dei preparativi in quei giorni di un golpe architettato dai fascisti insieme alla mafia? 

I giudici hanno per esempio trascurato di approfondire la presenza degli stessi personaggi nell’una e nell’altra trama: il colpo di Stato di Junio Valerio Borghese, e gli insabbiamenti del caso Mattei. A pilotare fughe di notizie e piste alternative erano i servizi segreti che oggi chiamiamo deviati, attraverso una rivista ufficiosa che sarebbe divenuta la Op di Carmine Pecorelli, e i vertici piduisti degli stessi apparati. I Palermitani della mia età sanno che da quegli ambienti partirono le velenose soffiate sul caso De Mauro utilizzate contro L’Ora e contro la sinistra per togliere di mezzo ed espellere un nucleo di studenti antifascisti greci collegati al resistente poeta e militare Alecos Panagulis rinchiuso in un’isola dell’Egeo dai colonnelli. Lo so che i depistatori non necessariamente sono gli assassini, ma come mai non si è indagato? Chiedersi perché sembra una domanda eccessivamente ingenua, o retorica. 

Ne parlai una sera a cena a Roma nel 2006 con Vittorio Nisticò, che mi ricordò di aver denunciato tutta la gravità paralizzante di quella trama poliziesca in un corposo editoriale-dossier uscito sul giornale nel terzo anniversario del delitto. La famosa confidenza di un giudice al commissario Boris Giuliano riguardo allo stop per le indagini sul caso De Mauro decretato dai servizi in un vertice a villa Boscogrande non combacia forse precisamente con quel “grossolano pasticcio” denunciato dal direttore del L’Ora nel 1973? E non assomiglia perfettamente a quella qualifica di “eversivi” data da Buscetta ai delitti del 1969/1970 (De Mauro, Scaglione) di Cosa Nostra nel dibattimento del maxi processo?  

I giudici non ci hanno fatto caso, ma noi possiamo utilmente rileggerlo e meditarlo quel vecchio testo di Vittorio Nisticò: 

“Alla luce delle tante provocazioni terroristiche di questi anni e della compiacente copertura trovata dai fascisti nei diversi uffici dei più delicati organi dello Stato si è oggi autorizzati a ritenere che nel dicembre del ’70 ci si trovò qui di fronte a un preciso tentativo da parte di qualche settore della polizia legato alle centrali sovvertitrici dell’estrema destra di utilizzare a favore di quella che è stata definita strategia della tensione la tragedia di Mauro de Mauro”.  

Il titolo era “I mille giorni  senza De Mauro”, pubblicato la sera del 20 settembre 1973 su L’Ora, quando mille giorni sembravano un’intollerabile infinità, figurarsi cinquant’anni. 

L’Ora, edizione straordinaria, 23 settembre 2020 (ripubblicato oggi, 18/08/2025

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