di Giuseppe Savagnone
A mani alzate
Nella tempesta di polemiche che hanno fatto seguito al contestato accordo tra la Von der Leyen e Trump sui dazi, la sola a dirsi relativamente soddisfatta, pur con delle riserve, è stata Giorgia Meloni. «Giudico positivamente», ha detto, «il fatto che si sia raggiunto un accordo. Ho sempre pensato e continuo a pensare che un’escalation commerciale tra Europa e Stati Uniti avrebbe avuto conseguenze imprevedibili e potenzialmente devastanti».
La premier italiana ha ragione di rivendicare la propria coerenza. Era stata lei a battersi – insieme al cancelliere tedesco Mertz e in netto contrasto con il presidente francese Macron – per evitare ad ogni costo uno scontro con gli Stati Uniti e accettare il dialogo alle condizioni imposte da Donald Trump.
Da qui la totale rinunzia da parte dell’Europa ad ogni contromisura in risposta ai pesantissimi dazi del 50% entrati in vigore dal 4 giugno su acciaio e alluminio. Da qui, alla fine di giugno, la decisione dei paesi europei aderenti al G7 di esonerare unilateralmente e ingiustificatamente le potenti multinazionali statunitensi dalla tassa minima globale per le Big Tech, privandosi di quella che tutti gli osservatori consideravano la più forte arma di pressione sull’economia americana.
L’Europa si è dunque presentata all’incontro con il presidente americano con le mani alzate, come evidenzia, simbolicamente, che la presidente della Commissione europea abbia accettato di recarsi nella tenuta privata, del Tycoon, piuttosto che in un luogo istituzionale super partes come sarebbe stato nella logica di una diplomazia paritaria.
Una strategia fortemente criticata da esperti come il Nobel Joseph Stiglitz, che, in base ai precedenti conflitti commerciali di Trump con altri paesi, come la Cina, aveva piuttosto consigliato una linea dura, l’unica in grado di smontare le pretese irragionevoli e arroganti del presidente americano.
Gli avvertimenti non sono stati ascoltati, la linea della Meloni ha prevalso, e il risultato è stato quello che il premier francese François Bayrou ha definito «un giorno buio» per l’Europa che, a suo avviso, «decide di sottomettersi» agli Stati Uniti.
Con una formula più pittoresca, il presidente ungherese Orbán ha commentato: «Donald Trump non ha raggiunto un accordo con Ursula von der Leyen, ma piuttosto si è mangiato la presidente della Commissione europea a colazione».
Da qui una reazione quasi unanime che ha trovato voce nei titoli di prima pagina dei giornali del 29 luglio, che parlavano di «Rivolta contro i dazi» («Repubblica»), di «Rivolta dazi. Italia isolata» («La Stampa»), di «UE in ginocchio: “Giorno buio”. Flop Meloni» («Domani»).
Una difesa dell’Occidente
Sul fronte opposto, «La Verità», che pure parla di «resa sui dazi», ne scarica tutta la responsabilità sull’Europa, lasciando in ombra il ruolo della premier italiana nel determinarne la linea in questa occasione.
Ma la voce forse più significativa è stata quella del direttore di «Libero», Mario Sechi, già portavoce della presidente del Consiglio e spesso in profonda sintonia con lei, nel suo editoriale, intitolato «Quell’Occidente che odia l’Occidente».
Sechi associa strettamente le proteste contro gli Stati Uniti per la loro politica sui dazi a quelle nei confronti di Israele: per la guerra a Gaza. «La “chiamata” delle sinistre al boicottaggio dei prodotti israeliani e di quelli americani è esemplare per tracciare la mappa dell’Occidente che odia l’Occidente, svelare la cattiva coscienza delle presunte classi colte, che agitano l’arma dell’irrazionale e accendono la fabbrica del caos. L’antiamericanismo e l’antisemitismo sono sempre più le facce della stessa medaglia».
Secondo il direttore di «Libero», insomma, il problema dei dazi va visto in un contesto più ampio, in cui è in gioco l’unità dell’Occidente, di cui l’alleanza tra Stati Uniti ed Europa è il pilastro.
Parole che hanno un riscontro, peraltro, nei reiterati appelli di Giorgia Meloni a lavorare per «rendere di nuovo grande l’Occidente». Lo ha detto incontrando Trump nella sua visita a Washington in aprile, ricevendone in risposta, per la verità, solo un laconico «Possiamo farlo». L’ha ripetuto in altre occasioni. Quasi a far dimenticare che lo slogan del presidente americano è invece «Rendere di nuovo grande l’America» e che proprio in nome di esso egli ha rotto un fronte politico ed economico che univa le due sponde dell’Atlantico e che costituiva, appunto, l’Occidente.
Si capiscono, in questo contesto, gli sforzi della nostra premier per proporsi come costruttrice di ponti tra queste due sponde. Sforzi che, al di là di immediate risonanze mediatiche – come nell’incontro di aprile della Meloni, con Trump, ricco di sorrisi e di complimenti scambiati da molti per una intesa effettiva – sono stati sistematicamente frustrati dall’assoluta indifferenza del presidente americano nei confronti degli interessi europei.
E si capiscono anche i toni rassicuranti che fin dall’inizio della presidenza Trump la nostra premier ha usato nei suoi confronti. Così, quando ha detto di volersi annettere, anche con la forza, la Groenlandia, togliendola alla Danimarca, e il canale di Panama, la Meloni ha definito questa inaudita minaccia, che ha lasciato sbalordite le diplomazie e l’opinione pubblica mondiale, «un modo energico per dire che gli Stati Uniti non rimarranno a guardare di fronte alla previsione che altri grandi player globali muovano in zone di interesse strategiche per gli Stati Uniti e, aggiungo io, per l’Occidente».
Con un tentativo, fin da allora, di sottolineare la coincidenza della causa degli Stati Uniti con quella dell’Occidente. Ma trascurando il particolare che dell’Occidente, anzi della NATO – che ne rappresenta l’espressione militare – fa parte anche la Danimarca, il paese minacciato di aggressione, a cui non è andata nemmeno una parola di solidarietà.
E quando Trump, lo scorso giugno, ha imposto ai paesi della NATO un aumento delle spese militari al 5% del loro PIL, la nostra presidente del Consiglio, che aveva sempre indicato come soglia massima il 2%, è stata pienamente d’accordo: «Sono impegni sostenibili», ha scandito.
«Lo voglio ribadire: per l’Italia questa spesa è necessaria per rafforzare la nostra difesa, per rafforzare la nostra sicurezza in un contesto che lo necessita, ma in una dimensione che ci consente di assumere questi impegni sapendo già che non distoglieremo neanche un euro dalle altre priorità del governo a difesa e a tutela degli italiani».
Anche se non ha chiarito da dove si prenderanno i soldi. Perché è vero che l’1,5% di questo totale potrà riguardare spese per la sicurezza nazionale in senso lato: cybersicurezza, centrali elettriche e reti di telecomunicazione terrestri e satellitari, infrastrutture strategiche di mobilità militare come ferrovie, strade, ponti, porti e aeroporti. Ma per il rimanente 3,5% da investire in spese militari in senso tradizionale, si dovranno trovare 700 miliardi.
Una necessità ineluttabile? A smentirlo è il fatto – segnalato da tutti gli osservatori – che il premier spagnolo Sanchez si è rifiutato di piegarsi alle pressioni di Trump, senza lasciarsi intimorire dalle minacce di rappresaglie economiche.
Sulla stessa linea è l’allineamento dell’Italia alle posizioni di Trump nei confronti della guerra condotta da Israele nella Striscia di Gaza. Di fronte allo stupefacente progetto di trasformare un territorio, da secoli appartenente ai palestinesi, in un resort tutistico di lusso gestito dagli Stati Uniti, deportando gli abitanti attuali in paesi vicino, come l’Egitto e la Giordania, il nostro ministro degli Esteri si è limitato a far presente l’irrealizzabilità dell’idea per la indisponibilità dei due paesi in questione, ricordando che l’Italia è stata sempre favorevole alla soluzione dei “due Stati” prevista dall’originaria risoluzione dell’ONU del 1947.
La politica verso Israele
Purtroppo già in passato, quando, il 10 maggio 2024, nell’Assemblea delle Nazioni Unite è stata messa ai voti una risoluzione – approvata da 143 paesi, tra cui Francia e Spagna – per il riconoscimento della Palestina come qualificata a diventare membro a pieno titolo dell’ONU, l’Italia si è astenuta: «Riteniamo» ha detto in quella occasione il nostro rappresentante, «che tale obiettivo debba essere raggiunto attraverso negoziati diretti tra le parti». Non facendo cenno al particolare che il governo di Netanyahu esclude assolutamente la possibilità di uno Stato palestinese.
E adesso, che il presidente Macron ha annunciato l’intenzione della Francia di riconoscere lo Stato palestinese – come già hanno fatto altri 148 paesi, tra cui, per citare solo alcuni di quelli europei, la Spagna, l’Irlanda, la Svezia, la Norvegia, la Polonia, lo Stato della Città del Vaticano – la nostra premier, in linea ancora una volta con gli Stati Uniti, ha definito questo riconoscimento «prematuro», attirandosi la risposta del cardinale Parolin, Segretario di Stato del Vaticano: «Prematuro riconoscere lo Stato di Palestina? Per noi è la soluzione».
Ma già quando Trump aveva colpito con sanzioni la corte Penale Internazionale, rea di aver emesso un mandato di cattura nei confronti di Netanyahu e del suo ministro della guerra, per «crimini contro l’umanità», il governo italiano era stato l’unico di quelli dell’Europa occidentale a rifiutare di firmare un lettera di protesta e di solidarietà alla Corte.
È difficile, davanti a questa storia, di cui la vicenda dei dazi è solo l’ultimo atto, evitare l’impressione che Giorgia Meloni rifiuti di prendere atto che l’Occidente non esiste più, dopo la svolta di Trump, e che la sua ostinata volontà di rilanciarlo si risolve in concreto in un appoggio incondizionato alla folle volontà di potenza del presidente degli Stati Uniti.
Da qui i continui moniti ad evitare una spaccatura tra le due sponde dell’Atlantico che è già avvenuta per scelta di quest’ultimo, e, nel caso dei dazio, a non provocare una guerra commerciale che in realtà era già in corso, scatenata dall’altra parte.
Da qui anche la condivisione della complicità di Trump nel genocidio perpetrato a Gaza (ma anche in Cisgiordania) da Netanyahu e il mantenimento, nei fatti, dell’appoggio a Israele, pur mascherandolo con qualche frase di disapprovazione ufficiale per placare il malessere dell’opinione pubblica italiana.
Ma, con buona pace del direttore di «Libero», l’Occidente non è l’America di Trump e tanto meno l’Israele di Netanyahu. E la sola speranza di ridare vita alla sua migliore tradizione è di non dimenticare mai che essa è fondata su valori antitetici a quelli della violenza e della sopraffazione, di cui questi tristi personaggi sono l’incarnazione.
tuttavia.eu, 30 luglio 2025
Nessun commento:
Posta un commento