sabato, novembre 01, 2025

Un secolo fa l’arrivo a Palermo di Cesare Morì, il prefetto di ferro, per sgominare la mafia

di Pasquale Hamel

L’attore Vincent Perez interprete di “Cesare Mori, il prefetto di ferro

Mussolini, durante un viaggio in Sicilia nel 1924, si rese conto dell’influenza pervasiva della mafia e della sua capacità di intimidire persino le autorità statali. Il regime fascista non poteva tollerare un potere parallelo: la lotta alla mafia divenne anche una dimostrazione di forza del fascismo. 

Bisognava agire in modo forte e deciso visto che ne andava di mezzo la credibilità del regime. Questa fu la premessa che portò alla nomina di Cesare Mori, il prefetto di ferro, con il compito di eliminare il potere mafioso, che rappresentava un ostacolo all'autorità dello Stato fascista e alla sua pretesa di controllo assoluto sul territorio. 

Il primo novembre 1925, cent’anni fa, Cesare Mori si insediava come prefetto di Palermo investito di poteri eccezionali, tra cui la possibilità di effettuare arresti senza mandato e quella di usare metodi coercitivi per ottenere informazioni.

Inoltre, fu autorizzato a condurre inchieste approfondite, anche contro notabili locali e funzionari pubblici di cui si sospettavano collusioni con gli ambienti mafiosi. 

La scelta di Mori, che non era fascista e l’aveva dimostrato a Bologna respingendo l’assalto delle squadracce fasciste e arrestando i più facinorosi, fu una scelta meditata e dipese dal fatto che si trattava di un leale e rigoroso servitore dello Stato per di più privo di quelle ambizioni politiche personali che potessero impensierire gli uomini forti del regime. Mori, inoltre, aveva già prestato servizio in Sicilia per circa tredici anni, con alcune interruzioni, accumulando una profonda familiarità con la cultura locale, le reti criminali e le difficoltà dell’amministrazione statale. Questa lunga permanenza gli aveva permesso di comprendere le radici della mafia, il suo legame con il potere locale e l’omertà diffusa tra la popolazione. 

L’arrivo a Palermo determinò una sorta di rivoluzione, realizzò infatti un nuovo ed efficiente apparato amministrativo del quale, scrive Mangiameli, nel ’43 si sarebbero serviti perfino gli Alleati per la loro massiccia operazione antimafia. Il dinamismo che contraddistinse la sua gestione aveva ben poco a che fare con quell’atteggiamento remissivo, e quasi complice, che aveva fino ad allora distinto l’azione delle forze addette alla pubblica sicurezza. Mori era infatti convinto che per combattere efficacemente la mafia si dovesse in primo luogo minarne la sua credibilità, incrinando il rapporto con quella società che la credeva invincibile. Agire sul piano repressivo, organizzando retate spettacolari, come l’assedio di Gangi o procedendo ad arresti di massa con mafiosi umiliati in catene, era il segnale della forza dello Stato, quello Stato che, come dichiarava, «bisognava mandarlo in ogni angolo della Sicilia». L’idea, di per sé corretta, fu però applicata in modo autoritario dal regime fascista. La «presenza dello Stato» passò spesso attraverso pratiche repressive e violazioni dei diritti civili. Dal ’25 al 1929, anno in cui fu rimosso con la sua nomina a senatore del Regno, la Sicilia fu praticamente sotto assedio e il potere mafioso, basta dare un’occhiata alle statistiche dei reati, subì una battuta d’arresto. L’azione di Mori, come scrive lo storico Salvatore Lupo, indebolì la mafia ma non la estirpò, e le sue operazioni, sebbene efficaci nel reprimere la piccola criminalità e interrompere l'attività mafiosa per un periodo, non arrivarono a colpire i vertici dell’organizzazione. Il giudizio storico su Cesare Mori è ambivalente. La sua lotta si fermò alla repressione e non portò a un cambiamento strutturale, permettendo così alla mafia di riorganizzarsi dopo pochi anni.

Pasquale Hamel

GdS, 31 ottobre 2025

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