di FABRIZIO LENTINI
Beati i miti, perché erediteranno la terra si legge nel Discorso della montagna, uno dei passi più spiazzanti del Vangelo, dove si demoliscono certezze e si ribaltano luoghi comuni.
E un vescovo mite, Corrado Lorefice, che da dieci anni scruta con i suoi occhi azzurri l'arcidiocesi di Palermo che papa Francesco gli affidò dieci anni fa, scovandolo in una parrocchia di Modica e sbaragliando previsioni e ambizioni. Mite in senso evangelico, certo. Che è il contrario di accomodante, remissivo, rassegnato.
Che significa forte perché non violento, sicuro perché coerente, coraggioso perché saldo nella fede.
Chi è Lorefice fu subito chiaro, il pomeriggio del 5 dicembre 2015, quando dal pulpito della cattedrale esordì evocando tra le vittime della mafia, uno accanto all'altro, il cattolico Piersanti Mattarella e il comunista Peppino Impastato. E citò la Costituzione, il Vangelo laico della Repubblica, leggendo l'articolo 3, quello che sancisce la "pari dignità sociale" di tutti i cittadini e impone allo Stato di rimuovere ogni ostacolo che limiti l'eguaglianza. Fu quel marchio civile, in cui era possibile leggere l'influenza del pensiero cattolico democratico di Dossetti, a dare il segno della sua missione. Religiosa, certo, ma anche "politica", nel senso della partecipazione attiva dei credenti alla vita della comunità. Non a caso anche ieri, nel corso dell'incontro organizzato allo Steri in occasione del suo decennale, Lorefice ha parlato della Costituzione. Mettendola in parallelo con il Vangelo, perché il "senso ultimo" dei due "racconti" è la "fraternità universale", "l'unità del genere umano".
In nome del Vangelo e della Costituzione, in questi dieci anni, "don Corrado" ha preso posizione. Dalla parte di chi sta male, di chi è rimasto indietro, di chi chiede aiuto. Ha celebrato all'Ucciardone la sua prima messa da vescovo. È andato al porto ad abbracciare 931 migranti recuperati in mare, e ha detto: «Dietro l'immigrazione ci sono fame e guerra, l'unica strada è l'accoglienza». Ha incontrato Luca Casarini, l'ex leader antagonista oggi in prima fila nei salvataggi nel Mediterraneo, e gli ha scritto: «Sono con voi». E per tutto questo è stato rampognato da Matteo Salvini e accusato di finanziare ong fuorilegge.
Adesso anche i governanti siciliani gli rendono omaggio, ma sulla pelle hanno i segni delle staffilate di Lorefice: quando l'Ars perdeva tempo nel votare una legge contro il dilagare del crack o quando centinaia di bare giacevano insepolte al cimitero dei Rotoli. Né si possono dimenticare i suoi richiami alla classe dirigente perché arresti l'emigrazione forzata dei giovani e gli appelli ai ragazzi perché sfuggano al ricatto clientelare: «Ad aiutarvi nella verità non è il politico che vi promette favori, il prete che vi raccomanda, il potente che vi chiede in contraccambio il sacrificio della vostra libertà».
È stata una spina nel fianco del potere, don Corrado. E un punto di riferimento per chi soffre. Chino sul giaciglio di Biagio Conte, il francescano laico in agonia nel dolore di un'intera città. Al fianco dei familiari di Totò Schillaci, simbolo di una Palermo che sognò il riscatto attraverso i suoi occhi sgranati, come dei genitori di Paolo Taormina, il ragazzo morto senza colpa nell'inferno della malamovida. In corteo tra abitanti e commercianti del centro storico per chiedere più sicurezza. E ha sempre parlato chiaro contro i «disumanizzati, disumanizzanti e perversi uomini e donne della mafia». Sottolineando però che non nascono dal nulla. In visita a Borgo Nuovo, uno dei quartieri satellite in cui la sfida della legalità è più ardua, Lorefice ha esposto il nocciolo della sua antimafia sociale: «Se l'unica istituzione che permette di avere casa, pane e lavoro si chiama mafia, abbiamo perso. Il rischio resta altissimo». Casa, pane, lavoro. Quello che manca per rendere concreta l'eguaglianza. Vangelo e Costituzione: in fondo è tutto lì.
la Repubblica Palermo, 31/10/2025

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