domenica, novembre 23, 2025

I FILI DELLA MEMORIA. Chi era Vincenzo Triolo, “ragazzo di vent’anni quadrato, intelligente, coraggioso”, che nel 1949 guidava i giovani comunisti di Corleone nella lotta per la terra?

Vincenzo Triolo, segretario della FGCI di Corleone nel 1949


di DINO PATERNOSTRO

C’era un ragazzo a Corleone nel ‘49, si chiamava Vincenzo Triolo, era segretario della FGCI, e aveva un viso che ricordava vagamente quello di Antonio Gramsci. 

“È un ragazzo di vent’anni quadrato, intelligente, coraggioso, il suo sguardo sereno infonde fiducia”, scrisse di lui Ugo Pecchioli sulla rivista “Pattuglia” n. 35 del dicembre 1949, in un articolo dove raccontava di una giornata trascorsa a Corleone con i contadini che occupavano le terre incolte e mal coltivate. E aggiungeva: “È un giovane capo che guida gli altri ragazzi di Corleone, con intelligenza e fermezza. La sua figura non mi è parsa nuova. Ricordavo altri giovani come lui, altri ragazzi siciliani che combatterono come leoni sulle montagne del Piemonte a fianco degli operai della Fiat, o degli studenti di Torino, o dei pastori valdostani, contro le orde di Hitler e di Mussolini. 

Mi tornarono alla mente, quella  sera a Corleone, i volti di decine di altri giovani siciliani, che vidi battersi e cadere sotto il piombo fascista, nelle valli di Lanzo, nelle gole del Canavese, sui colli ghiacciati del Gran Paradiso. Ragazzi che avevano famiglia e la casa mille miglia lontano, ma che sentivano che quella era la lotta anche dei siciliani. Oggi i giovani braccianti siciliani continuano le gesta dei loro fratelli partigiani”.

Il giovane Pecchioli, che sarebbe  diventato un importante dirigente nazionale del PCI, nel ‘49 scriveva per “Pattuglia”, il giornale dei giovani comunisti, il cui direttore era Gillo Pontecorvo. Nel marzo del ‘50 fu proprio Pecchioli a sostituire Pontecorvo nella direzione della testata, dopo che questi era caduto “in disgrazia” agli occhi di Palmiro Togliatti, capo carismatico del PCI, per aver pubblicato “una vignetta oggettivamente scurrile”. 

Infatti, Togliatti - imbufalito - lo spedì a Parigi per rappresentare la rinata Fgci nella federazione giovanile mondiale, ma dopo pochi mesi Gillo Pontecorvo lasciò l’incarico e (per fortuna) si diede al cinema, diventando un famoso regista. 

Ma chi era questo giovane, Vincenzo Triolo, che impressionò tanto il giornalista di Pattuglia” quel giorno di novembre del ‘49? Non ne avevo mai sentito parlare nel partito comunista corleonese, a cui avevo aderito nel 1974, a 22 anni. Ho chiesto notizie ad Enzo Cuppuleri, mio coetaneo e profondo conoscitore della sinistra corleonese di quegli anni. “Parla con Calogero Ridulfo, credo che possa saperne qualcosa”, mi suggerì. Non si sbagliava. Ridulfo, un anziano compagno militante del Pci e della Cgil, che conoscevo da anni, mi disse subito che Vincenzo Triolo era suo zio. E mi ha raccontato la sua storia. “Era fratello di mia madre, un giovane davvero in gamba, ma sfortunato. Era nato a Corleone nel 1930 e morì di tumore nel ‘64, ad appena 34 anni. 

Si era ammalato a Legnano nel 1962-63, dove era emigrato con la famiglia. Vincenzo si era sposato molto giovane con Nicoletta Asaro, una ragazza di Giuliana, paesino vicino Corleone, con cui ebbe due figli: Francesco Vincenzo e Giovanna”. 

Ho appreso, quindi, che Triolo abitava con la sua famiglia in via Rua del Piano, a pochi passi dalla casa di Totò Riina. Nonostante avesse partecipato con slancio e passione alla lotta per la riforma agraria, non ottenne il tanto agognato pezzo terra con cui poter sfamare la famiglia. Anzi, nel 1954 venne arrestato insieme al contadino socialista Gioacchino Gervasi, al cognato di Placido Rizzotto Peppino Di Palermo e ad altri lavoratori, dopo l’occupazione del feudo “Patría”. Vennero scarcerati dopo 15 giorni, ma Vincenzo capì che a Corleone ormai non era più aria e che se voleva trovare il modo di sfamare la famiglia era meglio fare le valige ed andare via. Emigrò come tanti altri contadini corleonesi e siciliani. Come meta scelse la città di Legnano. Ma ben presto si ammalò e fu costretto a tornare in Sicilia, dove pochi mesi dopo morì. 

Di lui resta una grande foto, dove si nota una certa somiglianza con Antonio Gramsci, uno dei fondatori nel 1921 del Partito comunista d’Italia, custodita nella casa del figlio Francesco Vincenzo, che abita a Chiusa Sclafani. Resta il ricordo che di lui ne ha la sua famiglia. Ma anche “l’affresco” realizzato in punta di penna da Ugo Pecchioli nel 1949. Un affresco del giovane Vincenzo Triolo, leader dei giovani comunisti, ma anche della Corleone che non era stata piegata dalla mafia, nonostante l’assassinio di Placido Rizzotto. Anzi, con la guida di Pio La Torre e del gruppo dirigente della sinistra e della Camera del lavoro, aveva contribuito alla conquista della riforma agraria. E nel 1956 aveva nuovamente conquistato il comune con la lista di sinistra formata dal PCI e dal Psi, che elesse sindaco il socialista Gioacchino Gervasi. 

Si tratta di una microstoria che ci parla di una grande storia spesso dimenticata. Per averci dato lo stimolo a tirarla fuori dallo scrigno della memoria voglio ringraziare il giornalista e saggista Marco Sappino, che sta lavorando a una ricerca sulla vita di Ugo Pecchioli. È lui che ha il merito di aver trovato la vecchia cronaca di un’assemblea contadina a Corleone, scritta nel dicembre 1949 dal giovane dirigente comunista. 

Eccone un ampio stralcio: 

“L’altra sera a Corleone, un paese di 15.000 anime che sta diventando famoso in tutta Italia per le grandi battaglie dei suoi contadini, eravamo riuniti nella sede della Camera del Lavoro, dopo aver partecipato alla grande assemblea dei contadini.

Intorno al tavolo sotto il ritratto di Rizzotto, sindacalista assassinato dai mafiosi, c’era Siracusa, il segretario della Camera del Lavoro, Ciriaco, segretario della sezione del P.C.I., Vincenzo Triolo, segretario della sezione giovanile, Testa, presidente della cooperativa, un gruppo di contadini, i capisquadra, quelli cioè che tutte le mattine guidano i gruppi sui feudi occupati. L’assemblea avevamo tenuto qualche minuto prima era stata entusiastica. Erano intervenute alcune centinaia di braccianti, uomini, donne, giovani, molti giovani. Parlammo della loro lotta, che non è una lotta isolata, ma è una parte del grande magnifico movimento che ridesta dal loro sonno secolare le terre del mezzogiorno e scuote dalle fondamenta i vecchi istituti feudali, dicemmo con quanto interesse soddisfazione gli operai e i lavoratori del Nord seguissero giorno per giorno la grande lotta dei contadini siciliani.

Nei loro occhi avevamo letto tutta la volontà e la sicurezza e la forza di quella lotta. Il compagno La Torre di Palermo non dovete spendere molto tempo per spiegare loro che il giorno di poi dovevano essere meglio organizzati, che dovevano recarsi sui fondi a squadre, che bisognava essere tutti presenti, che i capisquadra avrebbero fornito di permesso quelli che per precisi motivi non potevano recarsi sul fondo, ecc. 

La durezza della battaglia educa e organizza. Nella lotta gli uomini imparano a conoscersi, a unirsi, a sentirsi forti, le plebe diventano schiere organizzate, i migliori diventano i capi. Ricordo con quale espressione di gioia e di riconoscenza i braccianti di Corleone appresero la notizia che il movimento per l’occupazione dei feudi si estendeva di paese in paese, di provincia in provincia, che gli operai di Palermo avevano deciso lo sciopero generale di solidarietà, che gran parte dell’opinione pubblica del paese si schierava dalla loro parte.

Mentre eravamo riuniti alla Camera del Lavoro, si affacciò alla porta un mezzadro. Era uno dei tanti mezzadri, che avevano partecipato all’assemblea, un piccolo proprietario di qualche capo di bestiame. Qualche minuto prima era stato minacciato dal gabelloto mafioso ed ora chiedeva di essere aiutato. Incendiare il pagliaio del mezzadro ribelle o massacrargli il bestiame, o magari attenderlo la notte  e sparagli, questi sistemi sono norma per i mafiosi. I braccianti non si persero in discussioni. L’indomani avrebbero trovato un ricovero per le bestie del mezzadro minacciato e lo avrebbero protetto contro il mafioso.

La lotta per l’occupazione dei feudi e anche una grande lotta della gioventù contadina siciliana che vuol spezzare le catene da schiavi che per lunghi decenni hanno avvinto le caviglie dei loro vecchi, che vuole sulla sua terra aprirsi una via, conquistarsi una vita degna e libera. 

Sono i giovani che che vanno avanti ai cortei, che nelle ultime ore della notte escono dai paesi, a piedi, sui muli, con le zappe, gli aratri e le bandiere rosse, molte bandiere rosse. Precedono la colonna in avanscoperta per sventare ogni eventuale proditorio agguato della mafia. Sono i giovani che fanno i picchetti, che tengono i collegamenti tra i vari feudi, che fanno la guardia a cavallo sulle collinette che dominano i feudi occupati ove i contadini lavorano, che piantano le bandiere rosse, segnacolo di vittoria sulle “loro” terre. 

Sono giovani intelligenti e forti i braccianti siciliani di Corleone, di Castellana Sicula, di Caltavuturo, di Cefalù, di San Giuseppe Jato, di Valledolmo, di Contessa, di Campofiorito e di decine e decine di altri centri. Li additiamo all’attenzione del paese, e si meritano l’elogio di tutti i giovani lavoratori d’Italia (…).

Oggi i giovani braccianti siciliani continuano le gesta dei loro fratelli partigiani.

Il principe di Giardinelli, il duca di Pratameno, la principessa Maiorca, l’arcivescovo di Cefalù, il principe di Baucina, i baroni Micciché e gli altri 250 proprietari feudali che posseggono 122.000 ettari di terra in gran parte tenuta incolta, i loro vassalli, il ribaldi gabelloti e mafiosi, felloni e predoni, che per anni hanno spremuto sangue alle plebi dei contadini, cercano invano nella minaccia o nell’assassinio, o nell’aiuto delle forze di polizia un argine al travolgente movimento che sta per sommergerli. De Gasperi e Scelba distraggono forze incaricate della repressione del banditismo per bloccare i contadini che occupano la “loro” terra, come se gli italiani non sapessero che la vera lotta contro il banditismo è la lotta dei contadini siciliani contro la mafia, i gabelloti e i proprietari assenteisti. Ma tutto questo non servirà. Il popolo e la gioventù siciliana si stanno scrollando di dosso la casacca del forzato, l’aratro che oggi affonda il vomere nelle terre incolte, non può venir fermato. La terra siciliana verrà arata, seminata, e darà i suoi frutti”. (Ugo Pecchioli). 

Dino Paternostro

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