giovedì, novembre 13, 2025

Dino Zoff: «Per quelli della mia generazione era naturale formare una famiglia. Oggi è diverso, ci sono tanti tipi di unioni. Il rapporto con i miei genitori? Friulano»

Dino Zoff

È stato il giocatore dietro a tutti, quello che coordina la difesa dalla porta. Ancora oggi Dino Zoff ha bisogno di poche parole: contano i fatti. E le cifre, come quella sulla sua maglia: «I numeri sono tutto, bisogna sempre guardarli»

DI ANDREA ZEDDA

Questa intervista a Dino Zoff è pubblicata sul numero 47 di Vanity Fair in edicola fino al 18 novembre 2025, un numero speciale in cui 10 grandi saggi riflettono sul passato, sulle sfide di oggi e sulle idee per il futuro.

Chi sta dietro comanda. Chi gioca a calcio lo sa. Nulla di complicato: il giocatore più arretrato è quello che ha più visione sul gioco, e per questo deve impartire ordini alla squadra. Per anni nella nostra Nazionale il giocatore più arretrato è stato uno soltanto: Dino Zoff. Di ordini e indicazioni ne avrà dati tanti, eppure è difficile immaginarselo mentre urla per tutta la partita con i suoi difensori, lui che parla per monosillabi e frasi telegrafiche - senza quasi muovere le labbra. Quanto tempo sta in silenzio, oggi? «Il tempo giusto».

Impossibile fargli spiegare che cosa intenda per «giusto». Forse il suo mistero sta nel fatto che chi sta dietro, l'ultimo uomo, è anche quello che si difende tutto il tempo. Alle domande, d'istinto, oppone prima sempre un muro. Poi, a poco a poco, lascia filtrare le parole, a cui comunque preferisce i numeri«Sono tutto, bisogna sempre guardarli». Con disarmante onestà Zoff snocciola la sua cabala personale dietro cui c'è tutta una filosofia di vita. «Sia quando si traccia un bilancio sia quando ci si prepara per qualcosa di nuovo. I numeri non sbagliano mai». Il suo numero è stato sempre l’1, cucito sul retro della maglia, ma nella vita ne ha incrociato diversi: 68 e 82, gli anni del Novecento in cui ha vinto rispettivamente Europei e Mondiali,ma anche 17. Non un porta sfortuna, anzi.

Perché il 17?

«Era l'orario in cui potevo uscire da militare. Facevamo il Car come tutti, ma a noi calciatori permettevano di andare a giocare due volte a settimana perché eravamo già in Serie A. Per me, timido cronico, giocare in una squadra era già vivere in compagnia. Il militare l’aumentava».

L’ha aiutata nel rapporto con gli altri?

«Sì. La timidezza la sconfiggi così: o ti butti nel mondo, o ti butti in uno stadio dove ti fischiano o ti applaudono».

In caserma c'era un grande amico, del resto…

«Sì, Gigi Riva. Abbiamo condiviso tanta vita insieme, in campo sia da avversarsi che da compagni».

Che cosa si ricorda di lui?

«Ascoltava tanto De André».

E lei che cosa ascoltava?

«Quello che c'era. Soprattutto De Gregori e Battisti».

Il ricordo più bello della sua vita risale a quegli anni?

«No. Se parliamo di calcio devo arrivare al Mondiale dell’82: con tutte le polemiche iniziali è stata una soddisfazione enorme, perché è stata la massima espressione del mio lavoro, un momento straordinario. Ma devo ammettere che la nascita di mio figlio Marco è stata la felicità più grande».

Si è sposato giovane?

«Nel ‘68. Per quelli della mia generazione era naturale pensare di formarne una famiglia, si dava quasi per scontata e faceva parte del percorso di ognuno di noi».

Oggi non è così.

«No, ma ci sono tante altre alternative e tanti tipi di unioni. È sicuramente diverso».

Festeggia, ancora, con sua moglie, gli anniversari?

«In un certo senso sì. Senza grandi feste però».

Se invece dovesse pensare al momento più buio?

«La perdita dei miei genitori, è stato pesante e difficile da superare».

Che rapporto aveva con loro?

«Friulano».

Scusi?

«Un rapporto solido. Non erano persone molto espansive, e nemmeno così affettuose, ma sempre concrete, e non mi hanno mai fatto sentire la loro mancanza, erano presenti in tutto e per tutto».

È stato suo padre a trasmetterle la passione per il calcio?

«In realtà no. Ho cominciato da bambino, quasi per conto mio. Mi sono messo in porta sin dall’inizio e poi da lì non mi sono più mosso».

Come la presero i suoi genitori quando capirono che voleva giocare seriamente?

«Non fecero problemi. Io lavoravo e studiavo, e nel frattempo giocavo. Mio padre mi disse: “Se studi facciamo i sacrifici per farti studiare, se no vai a imparare un mestiere. Poi puoi giocare: se sarai bravo potrai continuare”. Era tutto molto semplice».

Non facevano tanti giri di parole…

«Zero. Era un ragionamento facile da capire: libertà, ma con responsabilità. Ero assolutamente libero, ma la sostanza era: “prima impari un mestiere, poi giochi”».

Direi che è andata bene.

«Ho fatto il mio».

Che mestiere aveva scelto?

«Ho fatto il meccanico. Mi piacevano i motori. Ho avuto una decina di auto, la più bella era una berlina brillante».

Avrebbe continuato su quella strada?

«Sì. Ma venivo anche da una famiglia contadina, c’erano anche altre opportunità, comunque fosse andata cadevo in piedi».

Quali sbagli ha fatto?

«Tantissimi».

Le pesavano di più quelli in campo o quelli nella vita privata?

«Dipende».

Ce n'è uno che ricorda ancora oggi?

«.No. Credo che in qualsiasi errore si possa trarre una lezione da imparare. L’errore capita: basta pensare “se avessi potuto fare diversamente, l’avrei fatto”. L’importante è interpretarlo. Bisogna considerarlo per quello che è, ma non portarselo addosso, altrimenti diventa pesante ed è difficile recuperare. Poi sa, se parliamo di calcio, i portieri ne fanno tanti di errori, difficile sceglierne uno».

Oggi c’è un portiere che apprezza particolarmente?

«In Italia abbiamo una buona scuola di portieri e siamo ben coperti, ma se dovessi sceglierne uno andrei su Donnarumma».

È il suo erede?

«È bravo».

Se dovesse dare un consiglio a un bambino di oggi?

«Di fare bene a scuola. La scuola è significativa»

Da bambino aveva qualche paura?

«No, niente di particolare».

E oggi?

«Eh, siamo alla fine della strada. Non è che si sia tranquillissimi…»

Come vive la vecchiaia?

«Bene. Magari ci si arrabbia di più»

Perché?

«Perché è qualcosa che non posso controllare, nulla su cui possa intervenire».

Ha paura dell’idea della fine?

«Non è incoraggiante».

Che cosa immagina ci sia dopo?

«Non lo so, e cerco di non pensarci».

Perché?

«In generale preferisco sempre rimandare, non farmi troppe domande. Poi sa cosa? Me lo chiedo e me lo chiedevo spesso anche da piccolo, ma non arrivano e non arrivavano mai risposte. L’unica cosa che posso fare è convincerci».

Che cosa, invece, la mette di buon umore?

«Il buon umore lo dà la salute. Le notizie del mondo non sono granché».

Come vede il mondo di oggi?

«Esagerato. È tutto amplificato ma non sempre corrisponde alla realtà. Troppe parole e pochi fatti».

Vale anche per lo sport?

«Sì. Nel calcio uno è “il più grande del mondo”, poi vai a vedere i numeri e non è così. Per questo mi piace lo sport: perché è questione di numeri. E con i numeri non si discute mai, hanno sempre ragione loro. O vinci o perdi, non ci sono santi».

Le piacevano anche i numeri delle pagelle che le davano dopo la partita?

«Sì, accettavo tutto».

Anche quelle di Gianni Brera?

«Sì, spesso esagerava per farsi bello. Ma poteva avere anche ragione: non si gioca sempre bene. A volte non rispecchiavano la realtà, né a favore né contro, ma fa parte gioco».

Qual è la lezione più grande che ha ricevuto nella vita?

«Bisogna sempre cercare la concretezza. Una volta presi un gol da fuori area e dissi a mio padre: “Non me l’aspettavo”. E lui mi rispose: “Non te l’aspettavi? Fai il portiere mica il farmacista, devi aspettartelo”».


Vanity Fair, n. 47 del 18 novembre 2025

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