domenica, gennaio 15, 2023

E LA SICILIA, STANCA, MUORE GIORNO DOPO GIORNO


L'ORA/ Le pagine della memoria. Cinquantacinque anni fa il terremoto del Belìce

di LEONARDO SCIASCIA

Le ultime notizie che abbiamo avuto ieri sera dalla televisione e dalla radio, tristissime accorate e accompagnate da immagini e descrizioni del disastro veramente apocalittiche (e c'era a Palermo, negli slarghi delle piazze e nella campagna di periferia, dal primo pomeriggio alla notte, un'aria da anno mille che si tentava di rovesciare in kermesse intorno a fuochi di sterpi e ad essi improvvisati sulle panchine), tra tanta pena insinuavano, e anzi assicuravano, la rapidità e l'efficienza dei soccorsi e dei provvedimenti: per cui chi, come noi, nel giro degli ultimi anni ha visto l'inefficienza e lentezza con cui lo Stato si è manifestato nell'alluvione che ha colpito la Toscana e nella frana che ha colpito Agrigento, ha avuto l'impressione che veramente qualcosa fosse cambiata in Italia.

Ma la prima notizia che stamattina abbiamo letto su un giornale dice invece della lentezza con cui la macchina dei soccorsi si muove, e che alle quattro del pomeriggio di ieri, cioè dodici ore dopo la sciagura, a Santa Margherita Belice non era ancora arrivata "né una tenda, né una pagnotta, né una coperta". Niente è dunque cambiato e in nessun caso dobbiamo farci illusione che cambi.

Quello che invece scatta con puntuale efficienza è il triste rituale demagogico e il richiamo alla unità e solidarietà sentimentale di un Paese effettualmente disunito, pieno di contrasti e di contraddizioni, a livelli diversi e di fatto inunificabili. E di fronte alle immagini di Gibellina distrutta ci pareva di sentire i commenti di certa gente al cui cuore fanno appello certi giornali del nord (notoriamente anti meridionalisti) quando aprono sottoscrizioni. "Vivono in case fatte di pietra e gesso, quelli lì". "Mica conoscono il cemento armato, quelli lì", e così via. La stessa voce, lo stesso accento, da cui abbiamo sentito che in Sardegna ci vorrebbero le bombe che gli americani impiegano contro i vietcong, e che in Sicilia, salve (non si sa come) le brave persone che forse ci saranno, ci vorrebbe addirittura l'atomica; quella stessa voce da cui qualche volta ci tocca ricevere il complimento che non sembriamo siciliani. "Quelli lì", lì a Santa Margherita, a Montevago, a Gibellina, a Salemi; quelli che vivono nelle case di gesso e ci muoiono, quelli cui soltanto restano gli occhi per piangere la diaspora dei figli; pulviscolo umano disperso al vento dell'emigrazione e che lo Stato soltanto pesa nella bilancia dei pagamenti internazionali; quelli che ancora faticano coll'aratro a chiodo e col mulo; quelli che non hanno né scuole, né ospedali, né ospizi, né strade. E al Presidente della Repubblica che oggi è qui sentiamo di dover dire che Egli rappresenta un Paese tremendo, dilacerato da contrasti e ingiustizie che sotto quiete apparenze non sono meno gravi di quelli che in altri paesi nel mondo sanguinosamente si dispiegano, E che la Sicilia, stanca, muore giorno dopo giorno anche senza l'aiuto delle calamità naturali".

(L'Ora 16 gennaio 1968)

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Dall'archivio storico de L'Ora, custodito a Palermo presso la Biblioteca Centrale Regionale, insieme al memorabile editoriale di Leonardo Sciascia le pagine del giornale di quel giorno terribile

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