venerdì, gennaio 20, 2023

Intervista al presidente del Centro Impastato. Umberto Santino: “Tra boss e colletti bianchi 150 anni di convergenze per interessi e per cultura”


di GIOACCHINO AMATO

Si chiude una fase, ma attenti: la mafia è un insieme di tradizione e modernità. Accanto alle estorsioni ci sono gli appalti, la finanza il cybercrime. Quando Franchetti e Sonnino parlavano nel 1876 di “facinorosi della classe media” si riferivano a quella che oggi chiamiamo borghesia mafiosa. Non sono soltanto professionisti ma anche imprenditori dell’eolico, del turismo dei supermercati. E tanti rappresentanti delle istituzioni.

«Sembra l’abbiano scoperta adesso, ma io di borghesia mafiosa iniziai a parlare nel 1972 fra tanto scetticismo. 
E se si va ancora indietro, si arriva al 1876, all’inchiesta in Sicilia dei parlamentari Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. I “facinorosi della classe media” che alimentano l’industria della violenza non sono altro che la borghesia mafiosa». 
Sorride sornione, Umberto Santino, fondatore del Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, studioso da sempre del fenomeno mafioso, decine di saggi pubblicati e promotore del museo “No Mafia Memorial”. 
Ma oggi chi sono questi borghesi vicini alla mafia? 

«La correggo, non sono vicini. Hanno rapporti organici con la mafia. Dalla nascita dello Stato unitario a oggi c’è una borghesia capitalistico-mafiosa formata da professionisti, imprenditori, amministratori, politici e rappresentanti delle istituzioni che favoriscono attivamente la mafia e spesso ne fanno parte. Questo non significa che tutta la borghesia è mafiosa, ma una parte sì. E quando non risulta giudiziariamente, il fenomeno è comunque documentato ampiamente». 
Di quali professionisti parla? 
«I medici, ad esempio, sono storicamente fra questi: Michele Navarra, che era medico e boss, o il fratello di Salvo Lima, Beppe, che fu a lungo direttore sanitario dell’ospedale Civico. Poi ci sono tanti che si sono piegati alle richieste dei mafiosi e alcuni, come Sebastiano Bosio e Paolo Giaccone, che si sono rifiutati di ubbidire e sono stati uccisi. Mi pare che anche nella vicenda di Messina Denaro i medici siano fondamentali. Ma non ci sono solo loro, ci sono gli imprenditori: quelli dell’eolico, dei villaggi turistici, dei supermercati. E poi tanti rappresentanti delle istituzioni con poco o tanto potere». 
Una borghesia che sta in silenzio di fronte al malaffare? 
«No, qui non parliamo del silenzio che riguarda la gente che preferisce non ribellarsi e sopporta. Qui c’è gran parte della borghesia che trova da un lato una convergenza economica con la mafia e dall’altro ne condivide la cultura, la mentalità. Una borghesia della quale fa parte anche la politica che chiede voti in cambio di favori. 
Un comportamento attivo, altro che silenzio». 
Allora l’anziano che dice «con Messina Denaro ci hanno mangiato tutti», non ha tutti i torti? 
«In parte è folklore giornalistico, la solita vecchia immagine della Sicilia, lo stesso folklore utilizzato per descrivere il personaggio Messina Denaro». 
In che senso? 
«C’è più attenzione per come vestiva, se andava a donne, rispetto a cosa gestiva, al potere che rappresenta e gli ha permesso trent’anni di latitanza che si sono chiusi, a mio parere, anche per le sue condizioni di salute». 
Il suo arresto chiude un’epoca? 
«Si chiude una fase e nasce una cosa nuova. Ma bisogna stare molto attenti perché la mafia, come tutti i fenomeni persistenti, è un insieme di tradizione e di modernità. Le estorsioni nascono nel sedicesimo secolo per affermare una “signoria territoriale” che ancora è funzionale alla mafia. Ma poi ci sono gli appalti, gli investimenti finanziari e il cybercrime. Tutto questo si salda insieme. In più c’è l’uso della violenza che permane dopo la fase stragista. Anche se adesso la mafia non uccide e non danneggia, sfrutta la minaccia di essere capace di farlo. Questa è pur sempre violenza». 
Chi dice che la mafia del pizzo è quella degli straccioni sbaglia? 
«Sì. L’esempio classico rimane quello di Gaetano Badalamenti, che controllava il territorio attorno all’aeroporto di Palermo con le estorsioni ma poi trafficava eroina con gli Stati Uniti». 
La mafia come una multinazionale con i suoi manager e i precari sottopagati? 
«Si può anche descrivere così. 
Anche se Cosa nostra non è più egemone fra le organizzazioni criminali del mondo, rimane uno dei pilastri del malaffare, con un piede nel passato e uno nella modernità. Anche grazie a quella borghesia mafiosa che, fra l’altro, rende difficile scoprire la verità sul periodo delle stragi». 
Messina Denaro potrebbe raccontare molto. 
«Dubito che parlerà. Ma anche se dicesse tutto, rimarrebbe una parte oscura che non può essere svelata né dai pizzini di Riina né dalla sua confessione. Solo la politica e le istituzioni possono svelare questa parte di verità». 
La Sicilia ha bisogno di infrastrutture, di investimenti. Rischiano di diventare un affare per la mafia? 
«Se si saltano i controlli per fare presto, come per il Pnrr, il rischio c’è». 
Ma si parla tanto di snellire la burocrazia. 
«Le lungaggini burocratiche sono il teatro in cui si consuma la corruzione che può diventare mafia. Eliminarle è necessario. Quello che non si deve eliminare sono i controlli e le regole per tenere fuori la mafia dagli affari». 

La Repubblica Palermo, 20/1/2023

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