Una raccolta di articoli del 1967 firmati dal giornalista ucciso. Da Acireale a Corleone
di Giacomo Pilati
Non c’è margine per le analisi, almeno all’inizio. Bisogna attendere ancora un poco, almeno i primi capitoli, per comprendere meglio il flusso delle parole che scombinano memoria e storia; perché un racconto così, dopo, è difficile leggerlo uguale. In principio è l’ascolto a spiazzare i pensieri. Poi la scrittura. Un dono. Che vira verso altri doveri. Che sono quelli del giornalismo che si fa documentario, letteratura, reportage, talvolta poesia, ma sempre verità.
L’editore Zolfo ripropone in una nuova edizione “ Processo alla Sicilia”, la raccolta di inchieste firmate nel 1967 da Giuseppe Fava, pubblicata nello stesso anno e poi nel 2008. Nessuna operazione nostalgia, per carità. Affiora piuttosto una dolce malinconia per un paesaggio aggressivo eppure indulgente, custode di una innocenza ruvida e impaziente. Trentacinque lunghi articoli che appartengono a un universo che nonostante tutto continua a resistere, alla modernità alla cultura, perfino al futuro. Se ci si sofferma a ciò che appare, si fa un torto al contenuto che esplode dentro le cornici. Non sono le autostrade da realizzare, le scuole da costruire, o le centinaia di chiese e conventi sparsi fra città e contrade a dare il senso al viaggio. Certo è curioso toccare da vicino le piaghedi un’isola soffocata da un dopoguerra infinito e trovare le stesse infezioni di adesso: mafia, degrado ambientale, povertà, emigrazione.
«Resta intatta l’attualità delle inchieste di Giuseppe Fava, il suo sguardo mai dolente, mai rassegnato sulle vicende di questa terra. Cambiata, trasformata, sventrata, e riscostruita più volte ma capace di produrre gli stessi sentimenti che conobbe negli anni in cui percorse e raccontò l’isola », spiega Claudio Fava nella introduzioneal libro.Itinerari alla ricerca di viandanti disposti a percorrerli con lo stesso stupore, la stessa meraviglia che si coglie in ogni angolo di questa incredibile mappa di segni.
«E non basta scrutare il volto delle città e conoscere le passioni degli uomini, ma bisogna conoscere gli errori, le truffe, gli inganni, le viltà, i delitti, le paure, i sogni: tutte questecose messe insieme formano l’anima reale di un popolo » , scrive Giuseppe Fava alla fine del suo lungo reportage.
Così ecco Acireale con otto collegi, cinque chiese e un numero incredibile di preti, più di duemila; Trapani con i suoi innumerevoli sportelli bancari che nemmeno in Svizzera; il porto di Mazara con armatori ricchi come nababbi; la mafia di Luciano Liggio a Corleone e il coraggio del commissario Angelo Mangano che per primo lo ha arrestato; la lotta feroce di una antimafia che ancora non si chiamava così ma già mieteva vittime. E poi l’emigrazione di una intera generazione di giovani verso la Germania, il Belgio, la Svizzera. La borghesia degli impiegati, con il privilegio del posto fisso. I poveri, contadini, pescatori, manovali, minatori, e dall’altra parte i baroni con il titolo stampato sui biglietti da visita, proprietari dei latifondi. La vergogna di Palma di Montechiaro con le fogne per le strade e i bambini spolpati dalla miseria. Ma anche le tedesche a Taormina con lo stuolo di dongiovanni di ordinanza. E i ritratti di emigranti, pescatori, poliziotti. Ognuno con una luce negli occhi diversa, piena di dolore ma anche di speranza.
A guardare oggi dal balcone della storia, la scena illustrata con parole modellate su emozioni che Fava ha poi prestato a registi, sceneggiatori e scrittori per raccontare la Sicilia, viene da chiedersi come lui stesso si interrogò nel 1966 alla fine della sua inchiesta, quale sia il vero volto della Sicilia. Un processo senza alcuna sentenza. Solo l’esigenza, come scrive Claudio Fava, di non essere mai stati svagati spettatori.
La Repubblica Palermo, 9 febbraio 2025
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