domenica, febbraio 23, 2025

Al Pacino, da Sonny Boy a stella del cinema, col nonno imbianchino originario di Corleone

Al Pacino

di AL PACINO

"Quando mia madre, dopo una delusione amorosa, cadde in depressione lasciai la scuola di teatro, la famosa Performing Arts di New York, a diciassette anni cominciai a fare mille lavoretti: pony express, le commissioni per l’American Jewish Committe, le pulizie all’Herbert Berghof Studio nelle aule dove si insegnava danza, traslocatore, cameriere, ma venni licenziato perché sorpreso a mangiare gli avanzi dai tavoli, per dire la fame che avevo. 

Intanto facevo provini teatrali, arrivavo col testo ma poi finivo a recitare Shakespeare (Amleto o Macbeth), mi lanciavano uno sguardo da cui capivo che avevo già perso ogni chance. Martin Sheen (Marty), compagno di corso venne a stare da me, così potemmo dividere l’affitto. Insieme lavoravamo al Living Theater nel Greenwich Village, dove pulivamo i gabinetti e stendevamo i tappeti per le rappresentazioni. Dopo aver visto uno degli spettacoli di Judith Malina e Julian Beck, come minimo tornavi a casa, ti chiudevi in camera tua e te ne stavi per due giorni a piangere e guardare il soffitto. L’impatto era quello.

 Al mio primo provino cinematografico con Elia Kazan, arrivai in ritardo e presero un altro. La prima cosa a cui pensai, in quel momento fu mia madre, l’avrei tirata fuori dalla sua depressione e dal suo stato di bisogno e le avrei dato tutto ciò che desiderava. Non perché sarei diventato ricco, o lei avrebbe fatto chissà cosa con quei soldi. Ma perché avrebbe ritrovato il gusto per la vita. Invece la mamma morì per colpa dei barbiturici, come Tennesse Williams, come tanti altri. Era stata lei a portarmi piccolissimo, a due e tre anni, al cinema e poi a Broadway come quella volta che videro La gatta sul tetto che scotta.


Per un po’ lavorai come maschera al Rivoli Theatre in Times Square e poi mi misi a consegnare le copie di Show Business, un settimanale del mondo dello spettacolo che pubblicava cosa andava in scena e dove si tenevano le audizioni. Quell’anno morì anche mio nonno a cui ero legatissimo, e mentre consegnavo la rivista svenni per strada, immagino che fosse perché ero denutrito, ma anche per il dolore di questa nuova perdita. Entrambi i nonni erano di origine italiana: Alfred Pacino, da cui aveva preso il nome, era arrivato dall’Italia a inizio Novecento, l’altro, il papà della mamma, veniva da Corleone, cosa che scoprii solo dopo essere stato scritturato per Il padrino, ed era immigrato negli Stati Uniti a quattro anni, faceva l’imbianchino, aveva lavorato tutta la vita. Era un’anima bella e gli volevo un gran bene. Se sono ancora qui è grazie a lui, e non lo dimenticherò mai.


Continuai a recitare nel Village, facevo spettacoli per bambini al Theater East, recitavo in un piccolo locale di Soho, l’Actors Gallery, e poi arrivò finalmente la svolta: il copione de L’indiano vuole il Bronx, atto unico di Israel Horowitz. Con alcune pause venni portato in giro per un anno finché arrivai a Broadway, con me in scena c’era John Cazale. Eppure la produttrice di New York mi impose un provino nonostante avessi interpretato il personaggio in tutti i teatri di provincia, alla fine la spuntai. Era il 1968, quell’estate portarono lo spettacolo per due settimane al festival di Spoleto. “L’indiano vuole il Bronx fu il punto d’arrivo di un percorso che era iniziato quando mia madre aveva cominciato a portarmi al cinema da piccolo. E dopo niente fu più lo stesso”.


Faye Dunaway lo andai a vedere a teatro e lo consigliai al mio manager che rappresentava Judy Garland e Barbra Streisand, andai a Los Angeles a fare un provino con Franco Zeffirelli per Romeo e Giulietta, sembravo più giovane ma avevo comunque 27 anni. 

Lo spettacolo successivo "Le tigri portano la cravatta?" mi valse il Tony Awards, a teatro mi vide Francis Ford Coppola, l’incontro che cambiò la mia vita. Il debutto cinematografico arrivò con Panico a Needle Park nel 1971 e quattro anni dopo, nel 1975, avevo già recitato in altri quattro film – Il padrino, Il padrino – Parte II, Serpico e Quel pomeriggio di un giorno da cani, che si affermarono non solo come successi al botteghino ma come pietre miliari nella storia del cinema.


Un pomeriggio ricevetti una telefonata. Dall’altro capo della linea sentii una voce che avevo quasi dimenticato: quella di Francis Coppola. 

Per prima cosa mi disse che sarebbe stato lui a dirigere Il padrino. Pensai che stesse delirando. Com’era possibile che dessero a lui il romanzo di Mario Puzo? Era un grande successo, l’avevo letto anch’io e sapevo che non era da tutti venire coinvolti in un progetto del genere. E se sei un giovane attore cose del genere non le sogni neanche. Già avere una parte in un film ti sembra un miracolo. Il resto è storia del cinema. 


Sonny boy è un libro ricchissimo di storie, il pranzo controvoglia che feci con Marlon Brando, aneddoti come l’incontro con Frank Serpico, considerazioni come quanto mi sentissi inadeguato sul set di Coppola, racconti di più di cinquant’anni di carriera cinematografica. Come quella volta che trovai un giovane regista alle prime armi, che manteneva un profilo basso un po’ come me, ma di cui parlavano tutti per una specie di film d’essai che io ancora non avevo visto e che si intitolava "Mean streets”. Le pagine più belle, più emozionanti però sono quelle della mia infanzia e della mia adolescenza nel South Bronx quando ero ancora Sonny Boy, come mi chiamava mia madre, circondato da ragazzi di strada. Ragazzi che portavano soprannomi come Bruce, Petey, Cliff, molti sono finiti in istituto o diventati tossicodipendenti. Io potevo essere uno di loro e invece ho incontrato il teatro. La storia del cinema ha avuto la sua stella e come sarebbe bello se il racconto di quell’infanzia nel Bronx un giorno diventasse cinema. Un film da regista di Al Pacino.

Al Pacino

(Da Facebook)

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