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Gianni Cuperlo |
Se fosse il titolo di una canzone di Faber, sarebbe “una storia sbagliata”.
E allora, forse la prima cosa da fare è conoscere i luoghi dove si è svolta…e quando…perché solo quel “dove” e quel “quando” possono aiutare a capire meglio il “perché”.
Raul Pupo è uno storico che al confine orientale ha dedicato dei libri preziosi (spiega la differenza tra il concetto di “confine” e quello di “frontiera” / il “confine” è la sbarra (di qua uno Stato, una bandiera, una divisa…che di là, oltre la sbarra, cambiano) / la “frontiera”: è un intreccio di identità, confessioni religiose, lingue, tradizioni, culture, nazionalità…una mescolanza…Lucien Fevbre forse avrebbe scritto una “frammistione di sangui”).
Quando nasci e cresci a ridosso del confine, in una terra di frontiera, quella mescolanza la respiri da subito (o comunque da molto presto).
Passano anni, decenni, e a fine marzo del 2004 il Parlamento vota la legge che istituisce il Giorno del Ricordo: con l’obiettivo di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Dunque, 10 febbraio: la scelta cadde su quella data nel rimando all’anno, era il 1947, che vide la firma sui trattati di pace di Parigi.
Doveva essere la fine dei postumi della guerra sul confine dove il “dopoguerra” si predisponeva a divenire un conflitto mai risolto.
Quella data aveva sancito il passaggio alla Iugoslavia delle terre istriane, del Quarnero, di Zara.
Circa trecentomila persone, la quasi totalità della presenza italiana, e tra quelli cinquantamila sloveni e croati, furono spinti ad abbandonare case, campi, i luoghi della vita e di tradizioni familiari.
Lo fecero valendosi del diritto di opzione che il Trattato prevedeva con la possibilità di trasferirsi in Italia: molti lo fecero a fronte delle pressioni subite.
L’accoglienza non fu calorosa: anni di fatiche, disagi, diversi scelsero la via dell’emigrazione.
Ci volle un decennio perché lo Stato favoreisse la piena integrazione dei profughi giuliano-dalmati nell’Italia del boom.
Il che non bastò a sanare la “ferita della memoria” al punto che sulla pagina sanguinosa di quel confine a lungo è calato il silenzio.
I motivi?
Pesarono interessi geopolitici, in fondo la Jugoslavia col suo profilo di “non allineata” era una zona cuscinetto tra noi e il blocco sovietico, né mancavano scambi commerciali, il tutto nella logica di una stabilità da difendere anche in vista del “dopo Tito”.
Quel silenzio accomunava la DC, ma pure l’opposizione comunista che sulle scelte compiute nell’alto Adriatico non poteva dirsi solo testimone.
Il tutto sino al 2004 e all’istituzione del Giorno del Ricordo: pure in questo caso con una legge del contrappasso, nel senso che da allora non vi è stata una sola ricorrenza libera da toni infiammati.
Il risultato è stato che una celebrazione che avrebbe dovuto ricostruire quel lungo conflitto tra diverse aspirazioni nazionali (di italiani, sloveni, croati, delle più diverse appartenenze e ideologie), è stata piegata dalla destra a una campagna aggressiva e di parte.
Allora, la domanda diventa questa: si può riflettere su una celebrazione entrata nel calendario civile del Paese con un di più di rigore e lucidità?
Penso che farlo si deve.
C’è una bella citazione di Predrag Matvejevič: “L’Atlantico e il Pacifico sono i mari delle distanze, il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l’Adriatico è il mare dell’intimità”.
E’ davvero bella, ma ci si può odiare nell’intimità?
Possono generarsi conflitti di una disumanità difficile anche solo da descrivere e può accadere in un perimetro che nei secoli ha visto letteralmente mescolarsi lingue, dialetti, religioni, costumi, identità?
Purtroppo, la risposta è Sì.
Con una premessa: è complicato se non impossibile osservare le violenze del ‘900 in quel triangolo d’Europa se ci si rinchiude in una storia “nazionale” (che sia quella italiana, slovena o croata).
Solamente considerando “punti di vista diversi” si possono svelare le dinamiche di un territorio che nell’arco lunghissimo del “secolo breve” (non appaia un paradosso perché non lo è) ha convissuto con varie appartenenze, nel senso di Stati e governi diversi.
Se si parte da qui è più facile capire quanto lacerante possa risultare la ricerca di una memoria condivisa al punto da ritenerla tuttora una meta impossibile.
L’altro corno del problema è rappresentato dalle parole e formule utilizzate.
E qui, le parole contano molto, moltissimo.
A cavallo del confine orientale (prima, durante e dopo la guerra) non vi sono state pagine di deportazione, espulsione o, peggio, “pulizia etnica”: termine per altro generato dagli eventi di un tempo storico successivo.
La definizione più corretta è un’altra.
Lì si sono prodotti veri e propri “fenomeni di sostituzione nazionale”.
Il che non paia una reductio della portata di quei fatti, fosse solo perché è stata una delle strategie applicate in angoli diversi del continente su come “accomodare” persone con appartenenze nazionali diverse in un unico Stato.
Nel nostro caso, significa che dapprima il fascismo volle l’allontanamento di molte migliaia di cittadini sloveni e croati dalle regioni italiane, successivamente furono gli accordi di pace a indurre l’Esodo dall’Istria di migliaia di cittadini italiani costretti a lasciare case e beni tra gli anni ’40 e ’50.
Detto ciò, perché all’incrocio delle due guerre mondiali, e prima e dopo quelle tragedie, la Venezia Giulia ha vissuto un di più di violenza consumata dalle varie parti?
La risposta è in un’altra formula: “nella lotta politica può sempre esserci spazio per i compromessi, in quella nazionale no”.
Il nazionalismo finisce sempre con l’essere il concime per chi vuole disseminare odi e contese destinati prima o poi a deflagrare.
E così puntualmente è avvenuto.
Dunque, il “dove”, ma come abbiamo detto, subito dopo devi conoscere il “quando”.
A ridosso della Grande Guerra e prima del fascismo Trieste faceva convivere una media borghesia dalle tendenze irredentiste, un proletariato “internazionalista” e un terzo ceppo di popolazione fedele all’Austria Felix (Viva l’A e po’ bon, rimarrà moto popolare dove la A stava per l’Impero decadente).
Finita la guerra iniziano anni tormentati, violenti, dove il fascismo individua nei socialisti il nemico da stroncare giudicandolo il collante tra slavi e nostalgici del patronato viennese.
In breve tempo su entrambi i fronti si crea l’humus perfetto per le componenti più massimaliste.
In quel contesto s’inserisce la parabola di D’Annunzio a Fiume (M), ma su quella si sono riempiti scaffali: basterà ricordare il pogrom anticroato di cittadini e legionari sedato dal Vate con l’argomento di “eccessi spiegabili in un primo impeto di passione”, (quando si dice uno spirito moderato!).
La vera data discrimine, però, sarà un’altra: il 13 luglio 1920: quel giorno si consuma l’assalto delle squadre fasciste con l’incendio dell’Hotel Balkan (il Narodni Dom, sede di organizzazioni e istituzioni slave a Trieste, vuol dire slovene, croate, serbe…).
È l’avvio di un altro pogrom, stavolta anti-sloveno, che Boris Pahor ha descritto in chiave letteraria nella novella “Il rogo nel porto”.
Le camicie nere vivono le spedizioni punitive contro banche, giornali, associazioni come “spettacolo di redenzione” mentre gli sloveni si trovano catapultati dentro un incubo che si prolungherà per il quarto di secolo a seguire.
Trattando di memoria per loro quella data rimarrà impressa: scolpirà il “trauma originario” della comunità nel suo legame con lo Stato italiano.
Gli episodi di violenza proseguirono nel tempo sotto lo sguardo complice delle forze dell’ordine: in fondo lo squadrismo era un aiuto contro il pericolo dell’eversione bolscevica.
La benevolenza dell’ordine costituito fece della Venezia Giulia una tra le regioni dove il fascismo agì con esiti più pesanti: solo in quella prima stagione 134 edifici incendiati, di questi un centinaio erano circoli di cultura, alcune case del popolo, oltre una ventina le Camere del lavoro e diverse cooperative.
In questa ricostruzione una citazione spetta all’aprile del 1927 quando il regime estende all’alto Adriatico le disposizioni già previste per il Tirolo meridionale.
Si tratta della “restituzione in forma italiana” dei cognomi deformati in passato dalle autorità austriache.
È l’avvio di una “massiccia italianizzazione” condotta dagli uffici e, si noti il dettaglio, senza “consultare gli interessati”.
Poteva così capitare ai fratelli Vodopivec, uno residente nel capoluogo, l’altro a Monfalcone di trovarsi battezzati rispettivamente Bevilacqua (traduzione letterale del cognome sloveno) e Vodini.
Diciamo che il tentativo in apparenza più folle, sradicare l’identità di un popolo, avanzò lungo il doppio binario di una assimilazione delle anime mai separata da una dose di violenza sui corpi.
Il fascismo fu questo (e taccia per sempre chi dice che “fece anche cose buone”!).
Tra le vittime di quella stagione repressiva moltissimi furono i cattolici, compresi preti, parroci, vescovi, assieme all’insorgere dell’antisemitismo in una città, Trieste, ricca di una comunità ebraica radicata e tra le più importanti.
La durezza del regime a organico pieno (pubblica sicurezza, carabinieri, Milizia) costituì nei fatti uno “stato di polizia” dove violenze, incarcerazioni, schede segnaletiche diedero vita a un apparato repressivo feroce.
In quel contesto, un ordigno venne fatto esplodere il 10 febbraio del 1930 (le date a volte ci inseguono) presso “Il Popolo di Trieste”, quotidiano fascista, uccidendo un redattore e ferendone altri tre.
All’attentato seguirono centinaia di arresti e ottantasette tra questi furono deferiti al Tribunale speciale che dopo un processo farsa comminò quattro condanne a morte.
Uno dei quattro, Ferdo Bidovec, era di madre italiana, come per altro slovena era la madre di Guglielmo Oberdan a conferma che “per i patrioti di frontiera il sangue non conta assai poco”.
I quattro vennero fucilati all’alba del 6 settembre 1930 presso il poligono di Basovizza in un luogo destinato a divenire “un sacrario” dell’antifascismo sloveno.
Lì anni fa il presidente Mattarella e quello sloveno, Borut Pahor, si sono raccolti mano nella mano e lo hanno fatto, segno di una volontà di pacificazione, subito dopo avere reso omaggio alla più nota foiba di Basovizza, perché nel tracciare la rotta di questo Giorno del Ricordo è naturalmente a quella pagina che dobbiamo arrivare, anche se farlo senza percorrere scorciatoie aiuta a capire.
E in questa storia per capire bisogna soprattutto conoscere.
La Seconda guerra mondiale scompose una volta di più assetti, etnie, comunità.
L’offensiva tedesca sulla Jugoslavia scattò il 6 aprile 1941, Mussolini vi si accodò in una pagina tra le più cruente.
Croazia, Slovenia, Bosnia, Montenegro o Voivodina non sarebbero mai state regioni controllate, tanto meno pacificate.
Gli ustaša, nazionalisti fanatici, avrebbero avviato la persecuzione di due milioni di serbi residenti nel nuovo Stato croato operando al contempo il genocidio di ebrei e rom: solo nel campo di sterminio di Jasenovac a trovare la morte furono in centomila.
Sul fronte opposto, dopo l’attacco di Hitler all’Unione Sovietica, siamo a giugno del ’41, i comunisti guidati da Tito animarono la resistenza antitedesca: lo fecero agendo in autonomia, fuori dalla raccomandazione di Stalin per la creazione di larghi fronti antifascisti.
Dal canto loro i serbi, distribuiti tra il Protettorato di Serbia occupato dai nazisti, lo Stato croato, la Dalmazia e il Montenegro dove di stanza stavano gli italiani, diedero vita a un movimento unitario, i četnici, “monarchici e sostenitori di un progetto ‘grande serbo’” ovviamente in conflitto con gli ustaša, “militanti dell’idea ‘grande croata’ in una logica di guerra civile”.
I partigiani combattevano entrambe le fazioni, četnici e ustaša, oltre agli occupanti italiani e tedeschi.
Tra il ’41 e il ’43 le azioni repressive italiane contro le formazioni partigiane non esitarono a reprimere quantità di civili, non furono “danni collaterali”, ma una strategia mirata a isolare qualunque focolaio di resistenza.
Internamenti di massa condussero a costruire campi in grado di concentrare migliaia di persone, accadde a Gonars in Friuli o nell’isola di Arbe in Dalmazia.
Cenni, solamente cenni, ma servono a dar conto della portata e profondità di un conflitto che sfocerà nella pagina ultima, quella che ci riconduce al tema del “Ricordo” e alla giornata di oggi.
Però, camminiamo ancora un istante sul sentiero imboccato: 8 settembre 1943, anche la Venezia Giulia conosce la sorte del resto del paese, comandi militari e truppe allo sbando.
Il vuoto di potere è immediato con i tedeschi impossibilitati a riempirlo nel breve.
L’Istria piomba nel caos coi soldati italiani in fuga.
La rete dei Comitati popolari di liberazione (Cpl) prende in mano le redini, a settembre proclama la volontà dell’Istria di annettersi alla Croazia e, per suo tramite, alla “fraterna comunità dei popoli della Jugoslavia”.
La contro-repressione non è meno violenta e spesso sfugge al controllo delle stesse autorità partigiane con atti di sadismo e di violenza cieca.
Nelle campagne attorno a Parenzo si consuma “una vera e propria jacquerie” coi contadini croati contro archivi comunali, simbolo di uno Stato oppressore, e vendette consumate sui loro vecchi “padroni”.
L’uccisione di Norma Cossetto, studentessa istriana seviziata e infoibata nell’autunno del ’43, resta una delle pagine più atroci di quella stagione.
Foibe, dunque, in terra istriana ve ne sono diverse usate allo scopo, da quella di Vines verranno recuperate oltre ottanta salme.
Il computo complessivo delle vittime non può che risultare impreciso, la storiografia lo quantifica attorno al mezzo migliaio, “un eccidio di grandi dimensioni paragonabile per eccesso alle più note stragi naziste in Italia”.
Resta la frattura, l’evento in sé, destinato in corrispondenza al ritrovamento dei corpi a trasformare il fatto oggettivo e tragico in un “costrutto mitico che diviene parte integrante dell’identità collettiva degli italiani d’Istria”.
A quel punto i semi di una narrazione contesa proiettata in tutto il dopoguerra tra “opposte retoriche, vittimiste e negazioniste” si sono interrati e germoglieranno una malapianta.
La tesi estrema è netta: le foibe sono “la prima tappa di un disegno di eliminazione violenta della presenza italiana nella penisola, destinata a divenire parte integrante della Iugoslavia comunista”.
Sappiamo oggi che non era così e che il punto stava di nuovo nella volontà di una “sostituzione nazionale”, concetto distinto e diverso dall’abominio di un genocidio.
Ciò non toglie che alla fine della mattanza in quel lembo del continente tra infoibati e uccisi dai nazisti non vi era famiglia che non piangesse un lutto.
Resta il dato di un secolo, il ‘900, terribile se si pensa a governi diversi per ideologia e impianto politico accomunati dalla volontà di creare Stati etnicamente omogenei.
Ma in tutto questo Trieste?
A Trieste il comando passa in mano tedesca, con le province a ridosso delle Alpi orientali (Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana) accorpate nella Zona di operazioni litorale (Ozak) dove “la sovranità italiana è puramente nominale”.
Siamo nella parte finale della guerra e il governo di Salò non ha alcun potere su sindaci, prefetti, legislazione.
Nel capoluogo giuliano l’imprenditoria si presta a collaborare anche in difesa dei propri interessi finanziari e assicurativi.
Nonostante nell’agosto del ’44 il vertice italiano del PCd’I venga arrestato ed eliminato, nei mesi successivi la resistenza partigiana si organizza tra le brigate Garibaldi, comuniste, e quelle Osoppo, azioniste e cattoliche.
Le violenze sono ancora una volta terribili.
Nel mese di aprile, siamo sempre nel ’44, i tedeschi compiono una rappresaglia nel villaggio di Lipa, in provincia di Fiume: una colonna scortata da ufficiali italiani entra in paese e uccide chiunque incontri, sono per lo più donne, anziani, tre bambine hanno meno di un anno, alla fine le vittime saranno 280.
Nello stesso mese a Opicina, sul Carso triestino, i partigiani uccidono sette militari in un cinema che proietta documentari di propaganda, un secondo attentato nel cuore di Trieste produce altre cinque vittime tedesche.
La rappresaglia si consuma nello schema classico del 10 a 1.
Settantuno ostaggi sono fucilati dopo l’attentato di Opicina, cinquantuno per quello consumato in città con i corpi appesi a monito della popolazione nell’androne di quello che sarà il conservatorio di musica.
Ma il peggio non è neppure lì: dall’ottobre del ’43 all’aprile del 1945 opera a Trieste la Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio in Italia.
Gestito da SS tedesche, austriache e ucraine annovera “specialisti” del ramo, carnefici responsabili di buona parte della Shoah della Polonia.
Kurt Franz, “il più sadico torturatore di Treblinka” e Odilo Globočnik a cui si ascrivono almeno un milione e mezzo di morti.
Circa settecento ebrei triestini passeranno da quelle celle (oggi monumento nazionale), se ne salverà una ventina.
Ma è sul dopoguerra che Trieste proietta la sua ombra, e lo fa ben prima che la guerra consumi le sue ultime brutalità.
Il nuovo vertice del PCd’I passato in mano alla componente slovena lascia agli jugoslavi la possibilità di occupare le aree di frontiera (siamo nell’ottobre del ’44).
Nel frattempo, le divisioni tra le formazioni partigiane si consumano come nella strage alla malga di Porzȗs, febbraio 1945, quando un reparto garibaldino stermina una brigata Osoppo.
Il Primo Maggio del 1945 i partigiani jugoslavi occupano Trieste: a guidare l’operazione i vertici della polizia segreta di Tito.
La tecnica che usano non è quella dei rastrellamenti di massa, prelevano singoli o piccoli gruppi anche se l’ampiezza delle operazioni non sfugge a nessuno.
Ancora Raoul Pupo descrive i numeri, tra Gorizia e Trieste gli arrestati sono tra i dieci e i dodicimila, non tutti saranno uccisi, ma questo lo si verrà a sapere solo in seguito.
L’indicazione è arrestare repubblichini, fascisti, četnici, squadristi e spie, collaborazionisti, agenti della questura e dell’Ovra, membri della X Mas, delatori di partigiani: un lungo elenco.
Non servono accuse provate, basta un sospetto, l’esito è una sequenza di uccisioni in molti casi senza alcuna imputazione e tantomeno colpa.
Volendo semplificare (cito), “chi porta le armi o ne risponde ai comandi jugoslavi oppure è un nemico, a prescindere dall’uso che ne abbia fatto assieme o contro i tedeschi. Anzi, se contro i tedeschi si è battuto, ma non si è posto agli ordini dell’armata jugoslava, è ancor peggio di un nemico, è un fomentatore di guerra civile”.
Il che spiega i motivi che condussero a morte finendo infoibati anche militanti della resistenza triestina, per altro segnata dalla frattura dell’ala comunista a quel punto appiattita su posizioni filo jugoslave.
Sono settimane tragiche: il giudizio storico dice come non si consumò una caccia indiscriminata all’italiano poiché in quel caso le vittime sarebbero state decine di migliaia e non tra le quattro e le cinquemila, numero terribile egualmente si capisce.
Ma appunto non di un genocidio o di una “pulizia etnica” si trattò.
Fu altro.
Una orribile coda di una guerra che aveva una parabola dietro a sé.
Una resa dei conti venata dall’odio nazionalista?
Certo, fu anche questo, ma quando ci si muove su una terra di frontiera le risposte non sono mai lineari.
L’Esodo dall’Istria e Dalmazia, ciò che il 10 febbraio ogni anno ricorda, è l’ultimo capitolo di questa lunga, tormentata storia.
L’Esodo fu dramma vero, strappo o ferita non ricucibile.
Con gli anni i passi nella direzione di una pacificazione si sono compiuti.
Per il poco che vale mi recai per la prima volta, da segretario dei giovani comunisti e con una delegazione del Pci-Kpi, a deporre un mazzo di fiori sulla Foiba di Basovizza.
Era il 6 agosto del 1989.
Alla Svolta di Occhetto mancavano pochi mesi: con me c’erano il giovane segretario della federazione del Pci di Trieste, Nico Costa, e il senatore sloveno, Stojan Spetič.
Nello stesso giorno andammo alla Risiera e la mattina dopo sull’isola di Arbe: a testimoniare le tragedie della Seconda guerra mondiale nelle regioni dell’Alto Adriatico (nel ricordo delle vittime della violenza italiana, di quella tedesca e di quella jugoslava).
La presenza di Stojan generò critiche nel mondo sloveno come nel caso del Primorski dnevnik, il quotidiano della comunità che animava lo spirito di pacificazione e cooperazione, ma sottolineava le strumentalizzazioni decennali della destra sulle foibe.
Il mio rapporto con la minoranza slovena è sempre stato stretto (nel 2006 mi feci di lato per garantire alla Camera l’elezione di Milos Budin): ma a tanti anni di distanza credo che quel nostro gesto fosse giusto e maturo.
Più tardi atti ben più autorevoli sono seguiti, dalla visita già ricordata di Sergio Mattarella e Borut Pahor all’incontro del 2010 quando i presidenti Napolitano, Turk e Josipovic (Italia, Slovenia, Croazia) resero omaggio al Narodni dom e al Monumento all’esodo istriano-dalmata.
Ciò che mi premeva rammentare in questa giornata è il bisogno di non cancellare il passato perché farlo equivale a gettare le basi a che possa ripetersi.
Ma non cancellare, già l’ho detto, equivale a conoscerlo e soprattutto capirlo.
Senza demoni in corpo.
Senza fantasmi a inseguire il presente.
Senza la paura di misurare la Storia, i suoi torti, le sue ragioni.
Per chi è nato lassù tutto ciò non può limitarsi a un augurio.
È semplicemente un dovere dell’anima.
Purtroppo, è esattamente questo che la DX oggi al potere si ostina a non volere e non capire.
Giurano da ministri sulla Costituzione antifascista, ma senza riconoscerne la natura e la genesi.
L’Italia ha conosciuto un regime che per vent’anni ha spento la luce della libertà, della curiosità verso tutto ciò che non era cieca obbedienza e fedeltà.
Oggi non c’è pericolo di tornare lì, ma al potere c’è una destra che vorrebbe di nuovo abbassare le luci e impedire a tanti di vedere ciò che stanno facendo.
E allora torna il bisogno di mobilitare e mobilitarsi di fronte a una destra che scambia il governo col potere e prova a riscrivere la storia.
Nel 1947, Italo Calvino pubblicava “Il sentiero dei nidi di ragno”: non era una lettura celebrativa della Resistenza.
Descriveva i partigiani anche come degli irregolari, mossi dalla rabbia – un “inutile furore” scriveva – che non li distingueva dagli altri, dai nemici, dai repubblichini in camicia nera.
E che cosa, invece, li distingueva?
Ne discutono una notte il comandante di brigata, un operaio salito in montagna, e il commissario politico, uno studente alla ricerca di spiegazioni meno schematiche.
Kim, lo studente, argomenta come le radici di entrambi gli schieramenti potrebbero essere le stesse (la violenza, la ferocia, l’assenza di pietà).
Ma a dividere gli uni dagli altri interviene la storia.
La traduzione di Calvino era questa: “dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buona fede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica”.
Insomma, da una parte c’era “il giusto”; dall’altra ciò che giusto non era e non potrà esserlo mai.
Se si dimentica questo, se lo si rimuove, si perde il senso della storia ed è esattamente quello che anche a noi tocca impedire.
E forse, precisamente da qui, bisogna ripartire.
Buona serata e un abbraccio.
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