Nel 1938 l'opera di Basile in piazza Castelnuovo doveva essere demolita: negli archivi dell'Ordine ritrovato il documento di ribellione al potente ministro Bottai
Danilo Maniscalco
La «Storia» è fatta di storie, così come la città è fatta di architetture, piazze, strade, rapporti dimensionali che possiamo definire: «fatti urbani». Con medesimo slancio, possiamo intendere che la memoria poi, individuale o collettiva che sia, si costruisca su «fatti» oggettivi, analitici, misurabili. Noti o ignoti, i fatti si incaricano di raccontare microstorie che finiscono per confluire nel grande fiume della macrostoria, attraverso date, luoghi, persone e personaggi e capita, talvolta, che siano proprio le nostre architetture urbane i testimoni silenti privilegiati di storie, ancora da disvelare colmando vuoti importanti che, fino a pochi istanti prima, lasciavano intatte domande importanti.
A questo scopo «narrativo», ambiscono quei ricettacoli di informazioni preziose commiste a strati di polvere accumulata nel tempo che, custodi della grande bellezza immateriale italiana, amiamo chiamare: «archivi», e il cui portato culturale è molto più esteso del mero significato. Fatti e testimoni dei fatti, viaggiano sullo stesso piano testimoniale così come architetture e archivi riescono «insieme» a raccontare le profondità più intime delle città. Nello specifico di questa storia, «l’architettura» è il Secondo Chiosco Ribaudo di piazza Castelnuovo, mentre «l’archivio» è quello inedito dell’Ordine degli Architetti Ppc, dal quale lentamente riemergono sequenze rilevanti di una «memoria urbana» perduta strada facendo. Se, infatti, conosciamo del piccolo chiosco tutte le coordinate storico-artistiche e dunque: la firma di Ernesto Basile nel 1915-16 e la piena aderenza al lessico floreale dell’ultimo Liberty del maestro, mentre ne ammiriamo la pelle d’intonaco, infissa ad uno scheletro di cemento armato con innesti musivi di Salvatore Gregorietti, le dorature dei riccioli e la copertura in forma di grande ombrello nervato risolto da una transenna traforata, conclusa da quattro sfere superiori, poco sapevamo della tortuosa vicenda che alla fine degli anni Trenta, stava per cancellarlo per sempre dalla storia della città e dell’arte. La costruzione nel 1931 del Palazzo Pantaleo, in luogo della non più esistente piazzetta Milazzo che anticipava il chiosco, aprendone la piena percezione dalla via Ruggero Settimo, nel saturare il lotto giunse al limite dell’architettura basiliana, ponendo di fatto l’edificio di Salvatore Caronia Roberti, già allievo di Basile e ormai in ascesa professionale e accademica, adombrato nel suo prospetto principale sull’importante piazza.
Fu in questo clima già «autarchico» che andò maturando l’idea di demolire la piccola costruzione effimera, ma fu altresì nel medesimo clima di riscatto culturale in seno all’allora Casa degli architetti, che nacque l’argine contro quella malsana idea. Dagli archivi dell’Ordine, è infatti emerso nei giorni scorsi, un documento importante che mentre colma vuoti, ci spiega chi e come riuscì a salvare il chiosco e con esso un frammento prezioso di Liberty italiano. Era denominato Sindacato interprovinciale fascista architetti di Sicilia, lo presiedeva Emanuele Palazzotto e ne erano membri ordinari: Luigi Epifanio e Filippo Basile (figlio di Ernesto). L’anno è il 1938 (XVI dell’era littoria), e il 20 dicembre, presso la sede di via Bandiera 2 – è proprio questo inedito «triumvirato» a porsi quale scudo verso l’assoluta tutela del bene, dichiarando in sede istituzionale: «Il Direttorio… ha preso in esame la questione relativa alla conservazione del Chiosco Ribaudo, opera del Prof. Ernesto Basile, sito all’imbocco di via Ruggero Settimo e delibera di inviare un veto al Ministero dell’Educazione Nazionale – e dunque al potente ministro Giuseppe Bottai – perché intervenga in favore della conservazione della costruzione in oggetto».
È così che il monumento viene salvato, ben sei mesi prima che la legge fondamentale 1089/39 sulla tutela del patrimonio artistico della Nazione entri in esercizio. In anni complessi, il «germe positivo» di quel che oggi è il Consiglio dell’Ordine degli architetti, riuscì a farsi Davide contro Golia, palesando il primato di un ruolo culturale mai spentosi a tutela della bellezza collettiva, che si appresta al compimento del suo primo secolo di Storia nel 2026. Nulla come l’architettura, riesce a descrivere meglio la cultura di una società nel tempo. Nulla come gli archivi, riesce a restituire giustizia alle storie di uomini coraggiosi e retti, talvolta persino dimenticati.
GdS, 2/3/25
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