mercoledì, ottobre 18, 2023

LA GUERRA "INASPETTATA"



di ALBERTO STABILE

La nuova guerra esplosa ai confini della Striscia di Gaza tra il Movimento di Resistenza Islamica (Hamas) e Israele non può essere isolato dal contesto generale dello scontro che da 75 anni infiamma la Palestina, vedendo contrapporsi le aspirazioni nazionali del popolo palestinese alla scelta dello Stato d'Israele di realizzare il proprio diritto ad esistere come Stato, non riconoscendo analogo diritto alla controparte ma mediante la perdurante occupazione militare di gran parte dei territori palestinesi.

La solidarietà verso le vittime israeliane di un attacco in cui Hamas ha voluto far mostra della peggiore macelleria terroristica, massacrando civili asserragliati nelle loro case al solo scopo di intimidire l'intera popolazione, è fuori discussione. Ma oltre a questo cinismo sanguinoso non nuovo alle strategie del gruppo integralista, basti pensare alla campagna di attentati suicidi scatenata negli anni '90 del secolo corso per boicottare il processo di pace specularmente alle analoghe intenzioni coltivate dell'estrema destra nazionalista e religiosa israeliana, Hamas ha dispiegato anche una capacità operativa e un acume tattico senza precedenti. Una cosa è convincere un ragazzo imbevuto di fanatismo a indossare una cintura esplosiva e farsi saltare su un autobus affollato, tutt'altra cosa è attaccare 22 località fuori dalla Striscia di Gaza, alcune distanti fino a 12-15 chilometri, con mezzi sia pure artigianali ma capaci di disorientare il nemico provenendo da terra, dal mare e dal cielo, sfondando una sofisticata barriera di sicurezza costata oltre un miliardo di dollari, sostenendo conflitti a fuoco, prendendo decine di civili in ostaggio per poi ritornare a Gaza con gli ostaggi, attraverso gli stessi varchi.

Tutto questo lascia ipotizzare un catastrofico fallimento degli apparati di sicurezza, sia dei servizi d'intelligence rimasti all'oscuro di quanto bolliva da giorni nel pentolone di Hamas, che delle Forze armate israeliane, disposte in maniera tale da non esser potute intervenire tempestivamente a soccorre la popolazione, liberare gli ostaggi, mettere in fuga i miliziani infiltratisi. Ancora nel pomeriggio dell' 8 ottobre, vale a dire 36 ore dopo l'irruzione, gli uomini di Tsahal, come viene chiamato l'Esercito Israeliano, non erano riusciti a mettere sotto controllo l'intero perimetro della Striscia, lungo una cinquantina di chilometri. Sporadici scontri a fuoco venivano segnalati in sette località.

A quanto pare, i servizi israeliani avevano ricevuto segnali abbastanza allarmanti, ma li avevano sottovalutati preferendo dar credito al concetto secondo cui “Hamas non aveva interesse a provocare una nuova esplosione in cui avrebbe avuto sicuramente la peggio”. Così, le proteste esplose la settimana scorsa all'interno della Striscia, nei pressi del confine, contro la chiusura del valico di Eretz e il blocco del flusso giornaliero di lavoratori palestinesi diretti in Israele, così come contro le invasioni sistematiche della Spianata delle Moschee a Gerusalemme da parte di ebrei nazionalisti-religiosi sostenuti dal governo dell'ultra destra, erano state semplicemente archiviate come episodi occasionali, mentre in realtà sarebbero state delle vere e proprie esercitazioni delle unità militari di Hamas, le brigate Ezz Ed Din el Kassam, che si preparavano all'assalto di sabato.

Ora, davanti al crollo del mito di efficienza e infallibilità che ha sempre circondato l'intelligence israeliana, sia interna (Shin Bet) che esterna (Mossad), alcuni analisti e osservatori ne individuano un fattore rilevante nel clima di esacerbata divisione che sovrasta la società israeliana da quando il premier Netanyahu ha voluto mettere mano alla cosiddetta riforma dell'Alta Corte, un vero e proprio golpe, dicono gli avversari di Netanyahu, per impedire alla più alta istanza della magistratura di sorvegliare sull'operato del suo governo. Come? Promuovendo una serie di provvedimenti che limitano fortemente i poteri della magistratura suprema. 

La pervicacia con cui Netanyahu ha portato avanti il suo piano meriterebbe miglior causa. In realtà il golpe giudiziario è parte degli accordi programmatici stretti dal leader del Likud con i partiti ultra ortodossi e quelli dell'estrema destra nazionalista, con i quali il premier ha stretto un patto scellerato, favorendoli nei loro piani di annettere a Israele i Territori Occupati, archiviando per sempre la possibilità di un negoziato con i palestinesi, in cambio dell'incondizionato appoggio degli alleati di governo ad evitare che il processo per malversazioni varie in cui è imputato finisca con il vederlo condannato. Piuttosto non si faccia il processo.

Sta di fatto che da 40 settimane gli israeliani scendono in piazza, il paese è spaccato e le incrinature percorrono anche settori delle forze armate e segnatamente i riservisti che sono il polmone delle IDF, indispensabili in qualsiasi ipotesi di mobilitazione. Ebbene per manifestare la loro avversione alla riforma della magistratura, e all'idea di stato autoritario che sottende, alcuni dei riservisti hanno minacciato di non rispondere, in futuro, alla chiamata dell'Esercito. Ieri però, dopo l'attacco di Hamas, secondo la stampa israeliana i riservisti che hanno preso parte alle proteste nel paese sono stati i primi a presentarsi alle loro unità ”per difendere il paese”.

Un altro angoscioso interrogativo che affiora all'indomani della inaspettata offensiva di Hamas, riguarda la portata del conflitto, vale a dire, se la piena solidarietà indirizzata dall'Iran al Movimento islamico palestinese, cui gli Ayatollah riconoscono il pieno “diritto all'auto difesa” contro Israele, implicherà l'intervento nella guerra anche dell' Hezbollah libanese, il partito di Dio longa manus del regime di Teheran domina sul confine nord ed è presente anche in Siria a fianco del rais Bashar el Assad. Quello che si teme, insomma, è un effetto domino, dovesse il cosiddetto Fronte della Resistenza formato da Iran, Siria, Iraq, Hezbollah ed altre milizie alleate (gli Houthi dello Yemen), convincersi di poter approfittare delle momentanea debolezza d'Israele.

Non sarebbe comunque così semplice. Israele resta la principale potenza militare della Regione, cui Biden ha assicurato in queste ore il pieno e totale appoggio degli Stati Uniti (anche a costo di dover sacrificare parte del sostegno garantito all'Ucraina). Piuttosto gli effetti della guerra esplosa sabato rischiano di avere un impatto più immediato sul piano politico e diplomatico. Nel mirino di Hamas e delle forze regionali che l'appoggiano c'era evidentemente il negoziato in corso tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele, per la “normalizzazione” dei rapporti tra il reame petrolifero guidato di fatto dall'erede al trono Mohammed Bin Salman, o MbS, e lo Stato ebraico. Un completamento, se vogliamo, degli accordi di Abramo promossi da Trump, che hanno visto paesi arabi come gli Emirati, il Bahrain, il Marocco e il Sudan, riconoscere Israele e stringere i relativi accordi diplomatici e militari in cambio di benefici economici. Nulla negli accordi di Abramo era previsto per risolvere il conflitto israelo-palestinese che va avanti dal 1948. Nessun accordo di pace che risolva questioni cruciali come quella del ritorno dei rifugiati, o dello Status di Gerusalemme o dei confini, vale a dire, dell'inarrestabile colonizzazione dei Territori palestinesi da parte d'Israele.

Convinto di poter proseguire più o meno sullo stesso binario, MbS ha accolto l'appello di Biden e del Segretario di Stato, Blinken, di intavolare trattative con Netanyahu sulla base dell'equazione: riconoscimento d'Israele da parte di Ryad, con lo sviluppo di relazioni politiche, economiche e militari senza precedenti con lo Stato ebraico, in cambio dell'estensione dell'ombrello militare americano all'Arabia Saudita.

Iniziativa quella americana che dice molto sull'opportunismo della politica, anche ad altissimi livelli. Primo, appena qualche mese fa, Biden ha dato all'Arabia Saudita del paese “parja”. Aveva in mente ancora il rapporto dei servizi segreti americani sull'omicidio del giornalista dissidente Jamal Kashoggi, strangolato e fatto a pezzi nei locali del Consolato saudita di Istanbul pare su ordine di MbS. Cadavere mai più ritrovato. Qualche mese dopo, Biden, che nel frattempo è entrato in campagna elettorale, si pente di aver pensato male  del principe saudita e lo invita alla più grande festa di riconciliazione che abbia mai visto il Medio Oriente. E con chi? Con un primo ministro israeliano che ha accusato di mettere in pericolo la democrazia israeliana e che, per mesi, si è rifiutato di invitare alla Casa bianca.

Ma Biden vuole fortissimamente essere rieletto, MbS sogna di possedere la sua atomica, magari transitando per il nucleare a scopi pacifici che Biden potrebbe regalargli, e Netanyahu vuol passare alla storia come l'amico degli arabi, ma di quelli che stanno fuori dai confini d'Israele. Quanto ai palestinesi, del loro destino non importano molto neanche a MbS che, appena qualche giorno fa dichiara che i colloqui con gli americani sono seri e vanno avanti e non terrà in sospeso l'accordo per fare un favore ai palestinesi. Per i quali, prevede non uno Stato, né il ritorno dei rifugiati, né lo stop agli insediamenti, ma soltanto un “miglioramento delle condizioni di vita”.

Non ci si crederebbe ma è lo stesso MbS che sei mesi fa, con l'aiuto della Cina, ha firmato un accordo con l'Iran per ristabilire normali relazioni diplomatiche (altra “normalizzazione” ) dopo  aver minacciato gli Ayatollah di “portare la guerra a casa loro”, se non avessero cessato di praticare la loro politica espansionistica nella regione mediorientale, appoggiando, oltre ad Hezbollah, gli Houthy dello Yemen contro i quali MbS ha ingaggiato una guerra che va avanti da nove anni.

Che il negoziato saudita con Israele sia parso al leader iraniano, Khamenei, come un intollerabile voltafaccia lo si evince dalle parole che la stessa Guida spirituale ha diffuso due giorni fa. La pace sta a cuore a tutti, ha avvertito, ma i paesi che cercano di normalizzare i rapporti con Israele “stanno scommettendo su un cavallo perdente. La loro è una scommessa persa in partenza”.

L'attacco dei miliziani di Hamas contro Israele, è anche un siluro contro la pax saudita, anche se gli Stati Uniti hanno fatto sapere che sono già al lavoro perché i colloqui non subiscano deragliamenti di sorta. Ma che la questione palestinese abbia una sua centralità nel processo di pacificazione tra Israele e il mondo arabo è un auspicio che tutti dovrebbero condividere. Al di fuori della pace altra soluzione on c'è. Quando il sangue delle vittime sarà stato lavato, una qualche tregua sarà ristabilita e la questione degli ostaggi esploderà in tutta la sua tragica umanità, come avvenne nel giugno del 2006 quando venne rapito il soldato Gilad Shalit al confine con Gaza, in cambio della cui vita lo stesso Netanyahu fece liberare 1024 prigionieri palestinesi, tra cui molti ergastolani, allora le parole di vendetta suoneranno vuote e lontane e come ha detto uno studioso israeliano a Thomas Friedman del New York Times, “se non vogliamo che gli stessi fatti si ripetano di continuo in forma sempre peggiore, qualcuno ha bisogno di pensare oltre più forza e più forza”.

L’Ora, edizione straordinaria, 9/10/23

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