giovedì, ottobre 19, 2023

Quant’era accogliente la città di Corleone nel Medioevo

Giornale di Sicilia, 19 ottobre 2023


Pubblichiamo la relazione del prof. Calogero Ridulfo al convegno “Acta Mediaevalia – Hospitalia e luoghi degli ordini religiosi e cavallereschi del Val di Mazara”, svoltosi a Corleone nei locali del Complesso Monumentale di Sant’Agostino. Al convegno sono intervenuti anche Filippo Grammauta, rettore dell’Accademia Templare di Roma, Francesco Barna, libero ricercatore, Patrizia Sardina, del Dipartimento Culture e Società dell’Università degli Studi di Palermo, moderati da Pietro Di Miceli, che hanno ripercorso alcune delle più importanti tappe del Medioevo corleonese, regalando spunti di riflessione e alcune vere e proprie chicche. 

di CALOGERO RIDULFO

Da diversi anni ormai c’è una questione che agita i pensieri della comunità di Corleone e che occupa un posto rilevante nell’agenda politica delle amministrazioni municipali di turno: ed è l’annoso problema dell’ospedale   e del suo ridimensionamento se non della paventata soppressione.

Ma l’attualità di un problema così basilare per il benessere sociale, trova un parallelo nella società medievale della città di Corleone e questo perché  l’ospedale civico ha radici molto profonde, che coprono un arco temporale di otto secoli.

Questo tempo ora noi analizzeremo andando a ritroso, per capire quale fosse in età medievale la condizione sociale.

Per la stragrande maggioranza degli abitanti vivere in quel tempo voleva dire affrontare una realtà estremamente dura, difficile, piena di sacrifici e privazioni, nella quotidianità del lavoro, nel  difficoltà di accedere a cure mediche davvero efficaci, non foss’altro perché se da un lato l’arte medica veniva demandata a sedicenti guaritori che facevano ricorso ad intrugli ed arti magiche, dall’altro si prendeva atto che non esistevano farmaci e terapie efficaci per le malattie più serie.

Alla luce di questi e altri fattori sorse la necessità di creare delle strutture specifiche di accoglienza e cura, se non fisica quantomeno morale, dei bisognosi, anche perché questo era fortemente voluto ed auspicato dal potere regio, preoccupato di garantire la tenuta della società, ed era caldeggiato dai vertici della chiesa cattolica, fortemente radicata nei gangli della società e spinta pertanto dal dovere morale di porre in essere gli insegnamenti del Vangelo in materia di carità cristiana.

E dal sentimento religioso della carità, carità delle opere, furono investite le èlites aristocratiche, incoraggiate dalla promessa della vita eterna, chiamate a fornire le risorse economiche e materiali per la fondazione degli hospitalia, ma in prima linea troviamo ovviamente le istituzioni religiose, indotte e incoraggiate a declinare in termini concreti e non simbolici il concetto del servire, assistere e prendersi cura degli strati sociali più disagiati ed emarginati.

Gli hospitales divengono centri polifunzionali, (per le ragioni di cui si è detto, quindi) non sono luoghi di esclusiva cura medica, ma spazi di accoglienza e solidarietà, entità preposte a dare risposte ai problemi endemici della povertà e a fronteggiare le frequenti ondate epidemiche e le carestie. In qualche caso, ed è questo il motivo per cui spesso si trovavano dislocati lungo le strade che portavano alle grandi mete di pellegrinaggio, svolgevano il compito di dare ospitalità ai viaggiatori e ai pellegrini in cammino verso i luoghi santi d’Oriente e le tradizionali mete religiose d’Occidente, Roma e le sue basiliche, la tomba dell’apostolo Giacomo nella Galizia spagnola.

E siccome gli ospedali non erano propriamente luoghi di cura per gli ammalati, bensì di generica accoglienza, assistenza e ricovero, nei documenti dell’epoca si incontrano i termini “hospitalia”, “hospitium”, “domus hospitalis” e così via.

Per documentare il caso di Corleone abbiamo attinto principalmente alle fonti notarili dell’Archivio di Stato di Palermo, dove si trovano conservati diversi registri dei notai che hanno rogato a Corleone nei secoli XIV e XV secolo e che per fortuna, in massima parte, non andarono distrutti dalle orde vandaliche dei moti risorgimentali.

Dalla loro consultazione emerge un quadro composito delle strutture dislocate nel territorio, sia all’interno delle mura del centro urbano, come pure extra menia, nel territorio adiacente. Una rete ospedaliera dedita ad accogliere, oltre agli ammalati, i poveri e i miserabili, gli individui fragili, come orfani e bambini abbandonati, i cosiddetti proietti, ma anche persone anziane non più idonee a sostentarsi e vedove non risposate, le cosiddette cattive, che spesso si votavano al servizio dei ricoverati.

Qualche ospedale apparteneva ai grandi ordini religiosi, ai teutonici e ai cistercensi, per cui siamo portati a pensare al ruolo di accoglienza nei confronti dei pellegrini.

Tra i primi ad essere documentati sul suolo corleonese è l’ospedale di san Giovanni Evangelista, appartenente all’Ordine monastico dei Cistercensi. Se nel 1309, come ci ricorda Henry Besc, esso è in gestione a frate Giovanni de Boyra, converso di Fossanova, siamo portati a credere che fosse  già attivo fin dal secolo precedente e doveva certamente funzionare da ospitium per accoglienza dei pellegrini in viaggio presso i luoghi santi.

Annesso all’omonima chiesa di san Giovanni Evangelista, verso la fine del ‘300 esso viene ricostruito e proprio per tale occasione Guillelmo Blasco lo dota di un materasso, di un paio di lenzuola bianche, di una coperta, di un cuscino, di una tovaglia da mensa, di una tovaglia per le mani e di un carratello di vino.

Nel 1399 ne è procuratore tale Petrus de Bentivegna, che è vittima di una congiura avvenuta all’ombra probabilmente di una contesa interna all’Ordine monastico cistercense, tra la corrente corleonese di san Giovanni e la corrente del monastero Sant’Angelo di Prizzi, dal cui priorato Corleone dipendeva.

Non meno antico e importante fu l’Ospedale di san Giovanni Battista, impiantato dall’Ordine dei cavalieri Teutonici, obbedienti alla regola dell’Ospedale di Gerusalemme, accanto alla chiesa omonima, sita in contrada Gerborum, confinante un tempo con la chiesa di sant’Elena e Costantino.

Nella seconda metà del XIV secolo l’ospedale venne costruito ex novo e per l’occasione la corleonese Cosa, mulier de Ferro, vi legò un materasso, un sacco da letto e un drappello usato, ma l’ospedale antico rimase comunque in uso  e la stessa donna, dopo alcuni anni,  vi fece dono di un lenzuolo usato.

Da un documento tratto dal notaio Giacomo de Pictacholis, risalente all’anno 1435, apprendiamo che l’hospitium era costituito da due distinti edifici, l’ospedale magno, arredato con tre letti, tre materassi in precarie condizioni, cinque coperte, cinque cuscini grandi e due piccoli, vari utensili di uso domestico e per la coltivazione dell’orto adiacente da cui si traeva il cibo per gli ospiti; e l’ospedale parvo, fra cui cinque materassi, due tavole da letto con due trispiti, una coperta nuova e due usate, tre lenzuoli, una coltre, quattro plumacia, una buctana, due cascie, due calderoni, uno zappone, una cugnata, due incisori di legno, una barbuta da pozzo, una padella, una pignata di rame, due fermature per masseria, una piccola cassa con suo ronchiglo, una maylla e una lixaria.

Ma i Teutonici vollero costruire un ospedale anche dentro le mura, che potesse servire per i bisogni della popolazione. Lo troviamo annesso alla chiesa della santa Trinità. Di questo ospedale si hanno notizie fin dal 1398, grazie ad un legato di donna Margarita, mulier de Rabuto.

L’ospedale di san Giuliano, sito nell’omonimo quartiere, adiacente alla chiesa eponima, era di patronato dell’Universitas di Corleone. Nel 1345 il nobile Michaelj Curto (che abitava in quel quartiere in una costruzione fortezza chiamata lo Steri e che probabilmente avrà contribuito a fondarlo) vi lega quindici tarì, nel 1378 il nobile Andrea de Ferrando e il magnifico Nardo Murualdo, giudici della terra, nonché i magnifici Fano de Ingignera e Antonio de Gaglano, giurati, in nome dell’Università nominano Tommaso de Ansisa ospedalerio e amministratore generale dello stesso, alla sua morte, avvenuta nel 1388, gli ufficiali dell’Universitas acconsentono che le mansioni svolte in vita dal quondam Tommaso vengano acquisite dal figlio di questi, Matteo .

Annesso alla chiesa di sant’Antonio, fin da tempo immemorabile, fu l’omonimo Ospedale del quale troviamo traccia nelle pergamene di santa Maria del Bosco. Viste le peculiarità iconografiche del santo siamo portati a pensare che esso accoglieva principalmente gli ammalati di ergotismo, il fuoco di sant’Antonio, di cui soffriva una fetta significativa della popolazione e solo marginalmente dava ospitalità ai pellegrini.

Accanto alla chiesa di san Jacopo nel XV secolo è annesso l’Ospedale, di cui possiede il diritto di patronato il monastero di santa Maria del Bosco, fa da ospitalerius Jacopus de Cangemj. Sicuramente l’ospedale era luogo di accoglienza e ristoro per i pellegrini in transito verso le mete jacopee.

    Ed era obbligo morale e religioso, per ogni fedele, almeno una volta nella sua vita recarsi in pellegrinaggio a Santiago in Galizia o in una delle mete jacopee di Sicilia create per consentire ai fedeli di espiare i peccati: un antichissimo atto di fede che affonda le sue radici nel XII secolo, essendosi diffuso in Sicilia dopo la sua conquista ad opera dei Normanni, ma che in età moderna andò lentamente affievolendosi per via dei notevoli pericoli a cui numerosi pellegrini andavano incontro durante il percorso.

Nel 1523 il cittadino corleonese Johannes de Amico, che aveva comprato una someria dall’agrigentino Mattheo de Tirrasio, dopo aver versato un acconto, si impegnava a saldare la rimanente somma al ritorno dal pelegrinagio santi Jacopi ;  Probabilmente il nostro fedele si apprestava a intraprendere un lungo, faticoso e non privo di insidie, cammino devozionale verso Santiago de Compostela o altro luogo di pellegrinaggio jacopeo.

L’Ospedale di sant’Agata, annesso all’omonimo convento, funzionava essenzialmente come orfanotrofio. L’Ordine dei carmelitani metteva a disposizione la domus, ma il governo stava in capo all’Università.

A testimoniare la presenza di un Ospedale annesso alla chiesa di san Marco è il testamento di Johanna, moglie relitta del defunto Jacopo de Placenzia, che lega all’omonimo ospedale un materasso e un cuscino. Si trattava sicuramente di una domus pontis e l‘ospedalerio era preposto a tenere costantemente netto e pulito il principale ponte di Corleone, da cui transitavano i viandanti da e per la Sicilia sud-occidentale e il trapanese.

L’Ospedale di santa Maria della Misericordia viene edificato a fine ‘300 per volere di Blanca, mulier de Brancacio, habitatrix di Corleone, vicino l’omonima chiesa, nella contrada detta di li Gerbj. Ad esso la donna generosamente lega una vigna sita in contrada Porta del vento, una vegete di vino, un carratello di vino, due vegetes vuote, ma soprattutto, per l’accoglienza e cura dei bisognosi,  provvede ad arredarlo con nove materassi, nove paia di lenzuoli bianchi, nove coperte usate, otto cuscini, certi barracani, utensili vari .

 

Nella prima metà del ‘400, una spinta riformatrice si fa strada in tutta la Sicilia nel campo dell’assistenza sociale e delle strutture di accoglienza. Nella parte occidentale sarà un monaco benedettino di san Martino delle Scale, fra’ Giuliano Mayali, su spinta dello stesso sovrano Alfonso V, ad intestarsi la proposta al senato di Palermo di accorpare i 15 ospedali della città in un’unica grande struttura, l’organo politico fa propria l’istanza, re Alfonso dà la propria autorizzazione e così negli anni trenta parte l’iter per la costruzione di un unico grande ospedale .  Corleone intercetta le spinte riformiste provenienti dalla città sorella e fin dal 1449 concepisce la costruzione di un nuovo ospedale che vada a sostituire quelli già esistenti, per l’occasione il presbitero Vincenzo de Puraria, comunerio della chiesa di san Martino, si fa precursore del nuovo corso attraverso il suo testamento in cui decide di legare un letto completo allo ospitalj noviter da farj prope ecclesiam Nunciate della terra di Corleone .

A fine Quattrocento l’ospedale viene dato in gestione ad una corporazione di medici e aromatari che attorno alla metà del secolo successivo si costituiscono in Compagnia Bianca e consolidano il loro patronato sull’ospedale che dopo poco tempo andrà a chiamarsi Ospedale dei Bianchi.

Solo verso la metà del ‘500 l’ospedale sotto il titolo di santa Maria dell’Annunziata verrà acquisito da una Compagnia Bianca che successivamente andrà sotto il titolo dello Spirito Santo.

Calogero Ridulfo

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