mercoledì, giugno 02, 2021

Giovanni Brusca. L’uomo del telecomando e quel condono per i suoi segreti

L'arresto di Giovanni Brusca nel 1996

di ENRICO BELLAVIA
Giovanni Brusca conclude la sua detenzione e usufruisce dello sconto di pena nonostante abbia dosato i suoi ricordi evitando di rivelare tutto quel che sa sulle stragi del ‘ 92 e del ‘ 93
Se la pena fosse commisurata al danno, a Giovanni Brusca non basterebbero 200 vite da scontare in galera. E viene da dire che la sua scarcerazione è il migliore spot contro l’abolizione dell’ergastolo ostativo per gli assassini di mafia che non hanno neppure collaborato. Quelli che non hanno pace in vita, i sopravvissuti al suo orrore, hanno tutto il sacrosanto diritto di indignarsi a saperlo libero. Perché è ingiusto nella sostanza immaginarlo ad accarezzare il figlio con le stesse mani che hanno tolto bambini a padri e madri e padri e madri a bambini. Ricordate come diede l’ordine di sbarazzarsi del piccolo Giuseppe Di Matteo?

“Allibertati ru cagnuleddu”, disse ai suoi sgherri che, lesti, andarono in contrada Giambascio, scoperchiarono la prigione, abbassando il pavimento mobile azionato da pilastri scorrevoli e si liberarono nell’acido di quel bambino ridotto a una larva da quasi 2 anni di prigionia.

Giovanni Brusca lo avevano condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo, il potente esattore di Salemi, ormai inutile a puntellare gli affari dei corleonesi. Non era stato all’altezza della grazia concessagli. E Giovannino, u’verru, a colpi di Cartier Pasha, rastrellati nel salotto buono di una Palermo complice nei suoi silenzi che profumano di soldi, si era comprato il lasciapassare per entrare nella sua villa e abbatterlo. Per Capaci si ritagliò il ruolo più comodo e definitivo, quello di uomo del telecomando.

l continua a pagina 3

di Enrico Bellavia ? segue dalla prima di cronaca H a ucciso senza alcun coraggio, sotto il manto dalla sua viltà e del padre Bernardo che a quel ragazzo, cresciuto a grigliate e delitti, trovava sempre il mondo di limitare i rischi. Proteggendolo, insegnandogli come la si può far franca per anni, istruendolo sulle pratiche per avvicinare giudici e investigatori.

Fu proprio per il tentativo andato a vuoto di sistemare il maxiprocesso che era stato deciso di far fuori Pietro Grasso.

C’era Bernardo Brusca in cima alla lista dei padrini da liberare quando lo Stato intendeva trattare con Cosa nostra per far cessare le stragi. E c’era Emanuele, il fratellone timorato di Dio, sul banco dei testimoni del pm contro Giulio Andreotti quando il clan Brusca al completo diventò un solido puntello all’edificio accusatorio contro l’ex presidente del Consiglio.

Il bacio con Riina, raccontato dal suo acerrimo nemico, Balduccio Di Maggio, era una fandonia, ma le loro parole, comprese quelle di Bernardo: «I miei figli dicono sempre la verità», allora servirono, eccome.

Giovanni Brusca è all’incrocio di tutta la storia recente di Cosa nostra e del Paese. Dei misteri irrisolti, delle verità che ancora ci sfuggono.

Dai suoi non era considerato un’intelligenza brillante ma, dosando violenza e ragionamenti basici, pensò che per fiaccare i sindaci progressisti affermatisi nella prima metà dei Novanta nei centri nevralgici della Sicilia, bastasse una campagna di terrore. L’allora capo della Mobile, Arnaldo La Barbera ci vedeva invece solo coincidenze.

E intanto Giovannino controllava il suo territorio e fu lui stesso a smentire le tesi minimaliste, quando in manette decise di sciogliersi la lingua. Aveva sistemato le cose anche ad Agrigento a suon di stragi, scegliendo poi Cannatello per il suo ultimo esilio dorato da boss con famiglia al seguito.

Fu catturato nel 1996 dalla nuova Mobile di Luigi Savina, Renato Cortese e Claudio Sanfilippo. Dopo l’avvio di una collaborazione eterodiretta che doveva garantirgli un duplice salvacondotto, dallo Stato e dalla mafia, provò a mascariare anche Luciano Violante, poi gli fecero cambiare registro, iniziò a sciorinare nomi e fatti. E raccontò parecchie cose.

Tutto?

Neanche per sogno. Ha dosato i ricordi, stando attento a sfilarsi dai capitoli più lacunosi della storia delle stragi di mafia del 1992 e 1993. Tanto però gli è bastato per sfuggire alla tagliola della morte in cella.

Ora si dice che questo è il prezzo della cambiale che lo Stato firmò quando Brusca iniziò a collaborare. Vero, verissimo.

Questa è la legge sui collaboratori: impunità parziale in cambio di informazioni. Il pentimento è affare di coscienza e di chi crede.

Vestire di redenzione un boia ha a che vedere con la mistica di chi confida nella riabilitazione. E perfino la Chiesa, se di mezzo c’è la mafia, ha preso a interrogarsi.

Le notizie sui crimini, invece, sono un capitale dello Stato di diritto. E, come si è visto, non sono stati escogitati molti altri modi per penetrare l’impenetrabile di un’organizzazione segreta.

Il punto è però sempre se il capitale vale la cambiale. Come insegna l’esperienza professionale di Giovanni Falcone. Insomma, se quel che ha detto Brusca è tanto o è poco. E come sono state utilizzate le sue informazioni. O se bisognasse chiedere di più. E se davvero fosse necessario impegnarsi fino a questo punto.

La Repubblica Palermo, 2 giugno 2021

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