domenica, giugno 13, 2021

Palermo. Strage di Via Scobar, verità incompleta

Giuseppe Bommarito

JAMIL EL SADI

38 anni dopo, il ricordo della tragedia nelle parole di Francesca Bommarito, sorella dell’appuntato ucciso

Ci sono storie nel nostro Paese che lasciano indelebile il senso del dovere e dell'onestà. Una di queste è quella dell’appuntato dei Carabinieri Giuseppe Bommarito, barbaramente ucciso da Cosa nostra a Palermo, 38 anni fa, assieme al Capitano Mario D’Aleo e al collega Pietro Morici. Nato a Balestrate, Giuseppe Bommarito era figlio di una famiglia umile e onesta. Prestato giuramento all’Arma dei Carabinieri in giovanissima età e, dopo essere stato a Torino, Napoli e infine a Grisì, nel giugno del 1972 viene assegnato alla compagnia di Monreale all’età di 28 anni. 

Quella in cui operava era una terra difficile con una forte influenza della criminalità organizzata, data dall’altissimo tasso di presenza mafiosa nel tessuto sociale. Una mafia, già all’epoca, in grado di tessere relazioni con la politica, le istituzioni e la Chiesa. Una rete ramificata anche fin dentro le Forze dell’Ordine. Rapporti bilaterali ibridi dei quali, pochi anni dopo, Giuseppe sarebbe venuto a conoscenza investigando.

Dopo di lui, a Monreale, arriva il Capitano Emanuele Basile, che aveva raccolto il testimone del capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano dopo il suo omicidio. Tra Bommarito e Basile si era instaurata subito un’intesa. Un rapporto sia sul piano dell’amicizia sia su quello lavorativo. Basile seguiva un filone investigativo in particolare: quello sul ruolo e sulle relazioni di Salvatore Damiani, indiziato di mafia, in stretto collegamento con le famiglie mafiose di Altofonte e Corleone. Indagini che porteranno a importanti operazioni e, evidentemente, alla condanna a morte di Basile. Condanna che non è stata disattesa. Verrà, infatti, ucciso nella notte tra il 3 e il 4 maggio del 1980. Il suo posto venne poi occupato dal Capitano Mario D’Aleo, troppo giovane per conoscere quegli ibridi connubi tra mafia e Stato. Autista ufficiale del nuovo capitano era il giovane carabiniere Pietro Morici. Due giovani in terra di mafia. Per questo, Giuseppe Bommarito, in seguito al tragico evento dovuto alla morte prima di un amico e poi quella di un suo superiore, il Capitano Basile, attraversa un periodo difficile e decide di eliminare il suo ruolo di autista ufficiale per i superiori della Compagnia di Monreale. Gradualmente, in seguito, decide di accompagnare il neo Capitano nelle sue attività, fino al giorno della tragedia. Tra D’Aleo e Bommarito si instaura, dunque, una nuova intesa, così come accadde tempo addietro con Emanuele Basile. Per questo D’Aleo si affidò all’appuntato Bommarito, alla sua preziosa memoria storica per conoscere il territorio e le inchieste svolte con il predecessore Basile. Fu così che le indagini contro Cosa nostra ripresero vigore e il nome di Salvatore Damiani ritornò più volte nei loro rapporti. I due giovani dell’Arma si convinsero sempre di più che ci fosse lui, Salvatore Damiani, dietro l’omicidio di Basile. Indagarono legami, relazioni, interessi economici. Indagarono su attività imprenditoriali, riciclaggio, traffico di droga. Arrivarono anche alla famiglia Brusca di San Giuseppe Jato. Ma in tutto questo varcarono un limite. Un confine concesso da Cosa nostra alle Forze dell’Ordine per mantenere la “pacifica” convivenza e connivenza. Un limite giustamente disatteso per combattere con determinazione ed efficacia gli affiliati a Cosa nostra, che si fece sentire in maniera violenta e sanguinaria, prima con l’assassinio di Emanuele Basile e poi con il triplice omicidio del Capitano Mario D’Aleo, Pietro Morici e Giuseppe Bommarito, la sera del 13 giugno 1983 in via Cristoforo Scobar, dove D’Aleo viveva con la sua compagna.

A livello giudiziario si è parlato del triplice omicidio nel 1997 quando iniziò il processo “Tempesta”. Ma si dovette attendere ulteriori 14 anni per arrivare ad una sentenza di primo grado. E infine, arrivare nel 2007 ad una condanna definitiva all’ergastolo, in qualità di mandanti, a carico dei componenti della Cupola di Cosa nostra, Salvatore Riina, Michele Greco, Pippo Calò, Antonio “Nenè” Geraci, Giuseppe Farinella, Raffaele Gangi, Francesco Madonia e, in qualità di esecutori materiali, anche per Michelangelo La Barbera, Francesco Paolo Anzelmo, Domenico Gangi, Giuseppe Giacomo Gambino, Salvatore Biondino. Ma di Damiani, della mafia di Monreale e dei colletti bianchi, sulla quale D’Aleo e Bommarito avevano indagato, nessuna traccia.

Ad emergere in maniera netta e chiara dalla vicenda è il ruolo ricoperto dall’appuntato Bommarito, in quanto rappresentava la memoria storica di una certa antimafia e di una precisa ed etica attività di contrasto alla criminalità organizzata. Memoria storica che ora incarna e porta avanti sua sorella Francesca che, in occasione del 38esimo, anniversario, abbiamo intervistato.


Come apprendi la notizia dell’agguato?

Quella sera, io avevo visto il primo tempo di un film che mi piaceva quando a mio figlio improvvisamente gli venne la febbre. Per questo spensi la tv al termine del primo tempo in modo tale da accompagnarlo in camera per riposare. Una volta accudito mio figlio, tornai davanti alla televisione per proseguire la visione del film. Quando accesi nuovamente la tv, stava andando in onda l’edizione speciale della notte del TG1, in cui si raccontava di un agguato a Palermo. All’istante vidi mio fratello riverso nel sedile posteriore della Ritmo blu dell’Arma dei Carabinieri. Rimasi in piedi pietrificata. In quel momento sono morta con lui. Il mondo in quell’istante si fermò. Ho ben nitida nella mia mente l’immagine di Giuseppe con la camicia estiva e i suoi capelli neri tutti insanguinati. Davanti a quella scena non riuscì a dire nulla. Assieme a Giuseppe vidi anche il Capitano D’Aleo e Pietro Morici. Morirono tutti all’istante. Mio fratello era l’unico ad avere la mano sulla fondina della pistola, anche perché fu l’ultimo ad essere stato ucciso. Era pronto ad intervenire, ma non gli hanno dato tempo.


Cosa accadde il 13 giugno 1983 in Via Scobar?

Negli atti del processo ho letto che Pippo Gambino e Salvatore Biondino si trovavano in Via Scobar nel lato dei numeri pari.

Avevano il compito di avvisare, incamminandosi verso l’abitazione del capitano, i componenti dell’auto che si trovava in via Adolfo Holm, con a bordo Michelangelo La Barbera e Francesco Paolo Anzelmo, figlio di Rosario Anselmo, arrestato da Emanuele Basile, e nipote di Raffaele Ganci, capomandamento della Noce. La macchina, su cui viaggiavano gli uomini dell’Arma, invece, proveniva da Viale della Regione Siciliana, essendo partita da Monreale. Una volta giunta al civico 22 di via Scobar, la Ritmo blu si direziona con il muso verso il cancello per far scendere il Capitano D’Aleo, ma appena quest’ultimo si avvicinò al campanello i killer iniziarono a sparare. Ad aprire il fuoco, in particolare, furono Gambino e Biondino. Colpirono il capitano al collo, al tronco e al braccio. Quattro i colpi inferti. Assieme ai due killer, vennero sparati colpi di pistola anche da un’auto, che colpirono l’autista Pietro Morici, che era al volante dell’auto. E per ultimo mio fratello Giuseppe, il quale aveva lo sportello dell’auto aperto perché dal momento che D’Aleo scese dalla macchina, lui voleva sedersi accanto a Morici essendo colleghi. A mio fratello, però, fu riservato un trattamento singolare. Michelangelo La Barbera, infatti, gli sparò un colpo di fucile alle spalle. E poi due colpi di pistola.

I collaboratori di giustizia hanno raccontato che non si aspettavano tre uomini, ma solo mio fratello Giuseppe e il Capitano D’Aleo. Non so se sia vero o meno, perché potrei anche pensare che loro volevano farli fuori tutti, così da eliminare completamente la memoria storica dell’azione investigativa della caserma di Monreale.


Perché tuo fratello è stato ucciso?

Perché in alcune indagini aveva collaborato con il Capitano Emanuele Basile. Inoltre, Giuseppe, non solo seguiva le indagini, bensì conduceva Basile nei posti più angusti che conosceva, in quanto sapeva collegare fatti a persone. Giuseppe conosceva bene la mafia. Ma fino a quando non arrivò Emanuele Basile, con le informazioni che Giuseppe raccoglieva non si faceva nulla. Perché per i capitani precedenti a Basile, la mafia non esisteva, oppure qualcuno aveva detto loro di non cercarla. Io credo fermamente che mio fratello venne ucciso proprio perché conosceva bene alcune importanti indagini, di cui ne era diventato anche memoria storica.

Giuseppe rappresentò per la mafia l’anello di congiunzione della memoria tra i due capitani, Basile e il giovane D’Aleo.


E voi familiari eravate a conoscenza del suo operato?

Giuseppe aveva raccontato ad una delle mie sorelle che, dopo l’assassinio di Basile, un giorno camminando per Monreale una signora dal balcone gli chiese: “Appuntato ma com’è che a lei l’hanno lasciato vivo?”. Ed egli, alzando gli occhi, rispose: “Per questa volta mi hanno risparmiato”. Tantissimi suoi colleghi, dopo la morte di Basile, infatti, avevano chiesto il trasferimento. Mio fratello no. Pochi giorni dopo la morte del suo capitano, al telefono mi disse: “Francesca, nel momento in cui lui (Basile, ndr) ha fatto arrestare la mafia dei colletti bianchi, che faceva riciclaggio del denaro sporco, ha messo una croce sulla sua vita”. Non parlavamo mai di lavoro, solo di famiglia o altro. Quella volta, invece, fu diverso. E mi fece nome e cognome di un personaggio. Con il senno di poi, io mi domando come mai mio fratello mi abbia detto ciò. Probabilmente aveva bisogno di parlarne con qualcuno. Aggiunse anche che chi di dovere non aveva protetto il Capitano Basile. Mi disse anche: “Da questo momento in poi non farò più l’autista dei Capitani. Mi cercherò un posto in caserma per lavorare e scenderò dalla caserma quando il sangue lo vedrò dai gradini della stessa, perché se non hanno protetto lui che era un Capitano (Basile, ndr) figurati me”.


La storia del Capitano Basile dimostra come lui, avendo indagato ibridi connubi e colletti bianchi in odor di mafia, abbia firmato la sua condanna a morte. C’è stato un avvenimento con cui Giuseppe Bommarito ha firmato la sua?

Sì. Un giorno mio fratello si recò presso un’attività commerciale di Monreale. A testimoniarlo c’è la sua prima relazione di servizio. In una delle stanze interne dell’edificio, si trovavano tre personaggi, di cui fa i nomi. Sempre nella relazione di servizio, scrive anche che gli venne fatto presente da uno dei soggetti di non proferire parola con nessuno di ciò che vide. Non aggiunse altro. Pochi anni fa, però, venni a conoscenza di una relazione molto più ampia scritta sempre da mio fratello. E in questa deposizione completa c’è molto di più. Quest’ultima l’abbiamo rinvenuta solo nel 2014.


E come mai questo incontro ha fatto sì che l’appuntato Bommarito firmasse la sua condanna a morte?

Penso che era una trappola, ma per capire bisogna fare un passo indietro. Mario d’Aleo era stato mandato lì essendo giovane e non avendo mai fatto né servizio territoriale né essendo mai stato nel nucleo investigativo. Questo dato non va sottovalutato. Dobbiamo chiederci, perché, dopo un omicidio così significativo come il capitano Basile, viene assegnato alla caserma un giovane così inesperto. Forse qualcuno desiderava, così, bloccare le indagini a Monreale? Ma qualcosa non va nel verso giusto. Mario D’Aleo tradisce i pronostici. Riprende le indagini del Capitano Basile e si spinge anche oltre. Inizia, infatti, a parlare di mafia e appalti. È possibile che alcuni soggetti volevano capire come mai il Capitano andasse avanti in maniera così decisa. Chi stava dietro al Capitano D’Aleo? Mio fratello non faceva più ufficialmente l’autista, come aveva detto, ma ogni tanto però accompagnava D’Aleo. Secondo me si inizia a pensare che dietro ci potesse essere qualcuno e che quel qualcuno potesse essere proprio mio fratello Giuseppe che rappresentava la memoria storica di Emanuele Basile. Allora fanno in modo che mio fratello andasse in questo posto, che era una trappola, e vedesse quei personaggi. Se mio fratello avesse redatto una relazione di servizio avrebbe significato che non si faceva intimidire dalla mafia. Al contrario, se non avesse fatto la relazione di servizio, lui sarebbe ancora vivo. Ma lui intraprese una decisione da Carabiniere e da uomo cresciuto con sani principi etici ed alti valori morali. La mafia, dunque, ebbe la prova che mio fratello stesse guidando D’Aleo. La mafia, così, si rese conto che non era sufficiente aver ucciso il Capitano Basile. Andava estirpata la memoria storica. Andava ucciso mio fratello. E dovettero aspettare il momento in cui mio fratello Giuseppe e il capitano D’Aleo fossero insieme.


Perché è importante che i giovani conoscano la storia di tuo fratello?

Vorrei che i giovani cogliessero due aspetti dalla mia memoria storica. Il primo è la storia di mio fratello, l’esempio che rappresenta in quanto dimostra che una persona può sempre fare delle scelte e decidere da che parte stare. Quindi tutti noi possiamo scegliere da che parte stare. E i giovani lo vivono, come tutti, anche nell’ambito scolastico con il bullismo perché la mentalità mafiosa nasce anche tra i banchi di scuola con i comportamenti prevaricatori e violenti. Il secondo aspetto è che se nella vita capita qualcosa non bisogna arrendersi. Io cerco di trasmettere ai giovani la dedizione che ho avuto nella ricerca della verità. E se non si fa di tutto per cercare la verità, quest’ultima resterà sempre una verità parziale. E nel farlo ho cercato di andare oltre la mia ottica, cercando dei riscontri per quanto possibile. Tutto senza farmi intimorire da nessuno. E quindi avere il coraggio. Se noi vogliamo che la nostra terra possa essere ricordata nel mondo per la sua bellezza, bisogna che noi partecipiamo a renderla bella e ad eliminare le mele marce che i nostri occhi possono vedere senza timore.


Dell’intera tragedia che ha colpito tuo fratello Giuseppe, il Capitano D’Aleo e l’autista Morici, pensi di sapere tutto? O cerchi ancora altro?

Sto ancora aspettando un pentito di Stato perché penso ci siano persone di Stato che sanno dell’omicidio di mio fratello.

AntimafiaDuemila.com, 13 giugno 2021

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