mercoledì, giugno 02, 2021

IL PERSONAGGIO. "Così insegnai alle donne come si vota"

Teresa Vergalli nel 1946

di SIMONETTA FIORI
Teresa Vergalli, 93 anni, "combattente" della Brigata Garibaldi ricorda quel 2 giugno del ’46: "La Repubblica era un sogno femminile"
«Le donne avevano paura di sbagliare, di stropicciare la scheda, di rovinarne la piega nel gesto di chiuderla. Perché avevano mani forti da contadine, mani callose abituate alla vanga e alla zappa più che ai manufatti di carta. E molte erano analfabete, non distinguevano un simbolo dall’altro. Le più vecchie non si fidavano degli occhi stanchi, le lenti erano un lusso riservato ai ricchi. E io dicevo loro: andate tranquille, e siate libere di scegliere. La scelta questa volta è solo vostra». Teresa Vergalli è cresciuta nella campagna reggiana, figlia di due mezzadri di Bibbiano. Il 2 giugno del 1946 non poté esercitare il diritto di voto perché non ancora maggiorenne, ma era una delle partigiane che avevano preparato al voto le donne, le mondine chiuse nelle cascine e le giovani operaie già protese verso la modernità.

«Tutto era cominciato nella Resistenza, con i Gruppi di difesa della donna. Discutevamo di diritti femminili, in un’epoca in cui la nostra parola non aveva dignità». A 93 anni la postura è ancora eretta, le gambe ferme di chi ha pedalato per centinaia di chilometri nei sentieri ripidi della clandestinità. Il distretto militare di Modena le ha riconosciuto la qualifica di "combattente" nella Brigata Garibaldi, che è molto più di staffetta. Ma in fondo Teresa la vocazione di staffetta se la porta nel cuore, la "staffetta tra generazioni" come ha scritto Alessandro Portelli nella prefazione del suo bellissimo libro Storie di una staffetta partigiana , uscito dagli Editori Riuniti 15 anni fa.

«Vuoi che ti racconti del 2 giugno 1946? No, di questo non ho mai parlato. Vieni a trovarmi domani, ma non ti aspettare una casa di lusso. Ti racconterò anche della mia amica Mimma, del suo seno flagellato e di molto altro». Le storie di Annuska - il suo nome di battaglia - riempiono di luce il piccolo appartamento romano di Cinecittà. Parlano di storie eccezionali narrate con il timbro dell’ordinarietà. E alla fine viene da chiedersi se davvero siamo stati all’altezza di quelle donne così "normali" che costruirono la democrazia.

«Aspettavo quella giornata da anni. Da quando avevo cominciato a fare le riunioni tra partigiane sul lavoro femminile. Noi dovevamo difenderci dalle bombe e dalla fame, ma anche pensare al futuro in democrazia. E nella nostra concezione di democrazia erano inclusi i diritti delle donne, allora calpestati sia in campagna che in fabbrica. Nei contratti di mezzadria le donne non venivano calcolate come forza lavoro: eppure erano quelle che si svegliavano all’alba per mungere le vacche, e poi badavano ai figli e alla casa. "Noi chine sulle bisce e sul fango – protestavano le mondine – e i maschi in piedi a comandare". Nelle Officine Reggiane, allo stesso bancone di lavoro, un ragazzetto di 16 anni prendeva un salario più alto dell’operaia adulta. E allora per la prima volta parlavo dei diritti sindacali. E le donne sorridevano guardandosi l’un l’altra, perché venivamo da un’epoca in cui il sindacato fascista era il luogo delle più orrende disparità: si andava avanti non secondo principi saldi, ma per fedeltà alla dittatura. E nei nostri incontri tutto si teneva insieme: la guerra partigiana, il sogno della Repubblica e la questione femminile.

«Il giorno del voto c’era una straordinaria eccitazione. In realtà non era la prima volta, perché le donne avevano già votato alle elezioni amministrative di marzo: a Bibbiano era stata eletta consigliera comunale la zia Dirce, la zia sarta che cuciva le gonnelline a fiori e il corpetto di velluto. Dopo ore di fila davanti al seggio, la mamma tornò a casa sfinita: eh, l’avevate fatta così difficile. Nei corsi preparatori al voto bisognava spiegare bene come comportarsi dentro l’urna. Le ragazze sembravano spaventate. Si preoccupavano anche delle madri e delle nonne analfabete. Noi consegnavamo loro il facsimile della scheda per fare le prove a casa. Per il 2 giugno le neoelettrici indossarono il vestito più bello. E le contadine solitamente a piedi nudi calzarono le scarpe della festa. Il Corriere della Sera aveva raccomandato che non ci si tingesse le labbra con il rossetto, nel timore di qualche baffo rosso sulla scheda. Ma la mamma e la zia non lo usavano, il massimo del belletto era un po’ di cipria sulle guance.

«La scelta del voto fu spontanea. La croce sulla Repubblica era quasi naturale. Le contadine non perdonavano alla regina di essere stata la prima sposa a consegnare la fede alla patria del fascismo. Certo, a lei non era costato nulla, di anelli ne aveva quanti ne voleva, mentre le nostre donne restavano con quel cerchietto di metallo che macchiava le mani di scuro. E quell’ombra le mortificava, come lo stigma quotidiano dell’ingiustizia.

«Nel gran giorno elettorale gli uomini ci guardavano con scetticismo. Ho sentito qualche comandante partigiano rassicurare i suoi compagni: tranquilli, mia moglie fa come dico io. Oppure temevano l’influenza della Chiesa: accidenti, mia madre dà retta ai preti. La preoccupazione era quella già espressa anche da illuminati parlamentari contrari al suffragio femminile: le donne sono per natura suggestionabili, creature emotive mai capaci di scelte razionali. Noi alle riunioni dicevamo: decidete da sole, non lasciatevi condizionare. "Zitta tu che sei una donna. Che ne puoi sapere?". A casa mia non l’ho mai sentito, ma alle riunioni le ragazze ci riferivano queste invettive. Nella cucina dei miei nonni contadini si mangiava tutti insieme, ma altrove gli uomini pranzavano seduti a tavola per conto loro, e le donne aspettavano vicino al camino, con la scodella in mano. Il voto femminile irruppe in questo mondo arcaico e fu una vera rivoluzione culturale.

«Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza: come avrebbero fatto i partigiani a comunicare tra loro? Eppure nel dopoguerra molte partigiane rimasero nell’ombra. Avevamo mostrato ancora più coraggio dei maschi perché noi combattevamo senz’armi. La pistola era sostituita dall’arguzia, dall’intelligenza, dalla parola svelta con cui superavamo gli sbarramenti nazifascisti. Io non avevo paura di morire, ma di essere torturata sì. Le donne venivano picchiate in modo selvaggio, anche violentate. Alla mia amica Mimma i tedeschi mutilarono il seno, lei non ne avrebbe parlato neppure con il suo medico, cinquant’anni dopo. "Son cose che non si possono dire", mi bisbigliò una volta all’orecchio. Se Mimma avesse ceduto alle torture dei nazisti, io non sarei qui a raccontare. Di recente le hanno dato una medaglia d’oro alla memoria.

«Una volta fui messa in difficoltà da un ragazzo con cui avevo attraversato il fiume nella notte, in attesa che le nuvole oscurassero la luna troppo accesa. Ci ospitò nella sua casa in collina, dove crollai sfinita sul divano. L’indomani al risveglio fece per abbracciarmi alle spalle, un tentativo goffo interrotto dalle mie urla. "Come ti permetti?". "Ma voi comunisti non eravate per il libero amore?". Era un partigiano cattolico che temeva gli portassimo via la casa e la motocicletta. Lui invece si voleva portare via me. Anche io ho fatto fatica a raccontare questa storia.

«In quei giorni di tarda primavera aspettammo con il cuore in gola l’esito del referendum, che arrivò solo con i giornali dell’11 giugno. In realtà la Repubblica democratica avevo cominciato a sognarla quando mio padre fu messo in galera per volantinaggio antifascista. Quali sono i miei sentimenti se mi guardo indietro? Ho vissuto una vita normale, fatta di scelte normali. Nel dopoguerra ho militato nel movimento delle donne del Pci, poi ho insegnato a lungo nelle scuole. Mi dispiace solo quando qualcuno tenta di sminuirei i valori del nostro grande sogno partigiano. E allora penso alle mie amiche di allora, alla forza della Mimma e al sorriso della Laila, e mi torna il buonumore».

La Repubblica, 2 giugno 2021

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