mercoledì, giugno 02, 2021

Mafia, il caso Brusca. La legge e il valore dei pentiti

Brusca schiacciò il telecomando per la strage di Capaci

di
GIUSEPPE PIGNATONE
La definitiva scarcerazione di Giovanni Brusca ha suscitato un vivace dibattito nell’opinione pubblica e reazioni molto negative specialmente tra alcuni familiari delle vittime dei delitti di cui egli si è riconosciuto colpevole. Maria Falcone, sorella del giudice assassinato a Capaci, ha invece correttamente commentato la notizia, dicendo: «Umanamente è una notizia che mi addolora, però questa è la legge, che peraltro ha voluto mio fratello, e quindi va rispettata». In effetti Brusca è stato scarcerato perché ha interamente scontato la pena massima di trent’anni di reclusione inflittagli, in quanto collaboratore di giustizia, invece dell’ergastolo, secondo quanto previsto dalla legge 15 marzo 1991 n. 82, approvata due mesi prima dell’arrivo di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, ma da lui ispirata e fortemente voluta sulla base delle esperienze palermitane, a cominciare dalle dichiarazioni rese nel 1984 da Tommaso Buscetta.

Negli anni precedenti erano stati approvati — a partire dal decreto legge 15 dicembre 1979 n. 625 — ben dieci provvedimenti che prevedevano benefici e agevolazioni sempre più ampie per i terroristi che decidevano di collaborare con lo Stato. Nulla, invece, era stato deciso per la mafia, forse nel convincimento — errato — che per i crimini “politici” si potesse sempre ravvisare una scelta ideologica, non ipotizzabile nel caso dei mafiosi. Oltre a ciò, ragione ben più grave, pesava il fatto che mentre il terrorismo era visto come un pericolo mortale per la Repubblica, nell’opinione pubblica, anche la più qualificata, mancava la consapevolezza della ben maggiore gravità rappresentata dalla minaccia mafiosa. Una miopia che sarebbe perdurata fino alla stagione delle stragi.

La legge del 1991 è invece determinata proprio da questa consapevolezza all’epoca patrimonio di pochi, maturata a fronte della serie infinita di omicidi di esponenti delle istituzioni in Sicilia, specialmente a Palermo, e dei risultati, eccezionali ma non decisivi, del primo maxi-processo.

Fu così che 30 anni fa vide finalmente la luce quella disciplina complessiva dei benefici per i mafiosi che decidevano di collaborare con la giustizia, a partire proprio dalla sostituzione dell’ergastolo fino a un articolato sistema di protezione esteso ai familiari.

La legge fa chiarezza anche sui termini e sulle ragioni di questo trattamento premiale: non è in gioco un ravvedimento ideologico, religioso o morale (cui alludeva il termine improprio di “pentiti”), si tratta invece di un contratto tra lo Stato e l’aspirante collaboratore, che si impegna a riferire ciò che sa sull’organizzazione e sui delitti da questa commessi, a cominciare dai propri, ricevendo in cambio la tutela dello Stato.

A trent’anni dalla sua approvazione, va riconosciuto che la legge ha raggiunto il suo scopo: centinaia di capi e gregari di Cosa nostra, ’ndrangheta, camorra e mafie pugliesi hanno deciso di collaborare, consentendo di fare luce su numerosissimi delitti, facendone condannare (dopo i necessari riscontri) gli autori, permettendo la cattura di latitanti e la confisca di beni per miliardi di euro.

Particolarmente importanti in questo percorso sono state, ovviamente, le dichiarazioni di personaggi apicali quali Giovanni Brusca. Ed è significativo che oggi l’organizzazione mafiosa più potente e pericolosa sia la ’ndrangheta: i collaboratori provenienti dalle sue file sono stati finora in numero ridotto e di rango abbastanza basso, quindi con limitate informazioni a disposizione.

Questo contesto non può essere dimenticato di fronte alla (pur comprensibile) reazione emotiva per la scarcerazione dell’autore materiale della strage di Capaci nonché responsabile dell’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo, e va anche aggiunto che in passato altre figure responsabili di identica ferocia sono state scarcerate in tempi persino più brevi, nel disinteresse generale. Né va dimenticato che solo poche settimane fa la Corte Costituzionale ha affermato che la possibilità di liberazione condizionale va introdotta anche per i mafiosi condannati all’ergastolo che non abbiano mai collaborato con la Giustizia.

Massimo rispetto, dunque, per le accorate reazioni di famiglie colpite dal lutto per mano mafiosa, ma come ha detto Maria Falcone, lo Stato deve rispettare per primo le leggi che emana. Né alcuna critica può essere rivolta ai giudici della Corte di Appello di Milano che hanno disposto la scarcerazione di Brusca senza alcuna valutazione discrezionale, ma solo conteggiando la riduzione di 45 giorni di pena per ogni sei mesi espiati, secondo la norma da applicare a qualunque condannato che abbia tenuto negli anni un positivo comportamento in carcere. Peraltro, nei prossimi quattro anni Brusca sarà sottoposto a libertà vigilata e per un periodo probabilmente maggiore anche alla sorveglianza connessa alle misure di protezione disposte nei suoi confronti.

Un’ultima notazione. Ormai da anni la prova principale nei processi di mafia è costituita dalle intercettazioni, una prassi investigativa oggetto di feroci critiche da quegli stessi che di fronte alle dichiarazioni dei “pentiti” invocano riscontri “oggettivi”, basati su acquisizioni tecniche e non su altri dichiaranti. Tuttavia, i collaboratori di giustizia rimangono a oggi uno strumento fondamentale per conoscere le mafie dall’interno ed essere così nelle condizioni di meglio contrastarne le attività criminali.

Sempre che si sia realmente convinti, come ha detto pochi giorni fa il presidente Mattarella, che la lotta alle mafie «deve restare una priorità nell’agenda politica».

La Repubblica, 2 giugno 2021

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