sabato, aprile 15, 2023

Sui pizzini di Matteo Messina Denaro l’analisi del docente di linguistica italiana dell’Università di Palermo, Giuseppe Paternostro. «I pizzini? Nel solco di Provenzano, ma molto più moderno»

Andrea D’Orazio

«Il solco è quello dei pizzini di Bernardo Provenzano. D’altronde, Messina Denaro era elemento cardine del sistema di comunicazione dello “zio Binnu”, tanto da guadagnarsi, all’interno di quel codice, l’appellativo di “nipote Alessio”. Siamo sulla stessa falsa riga». 

Premettendo subito che stilemi e costrutto di lettere, messaggi e diario trovati nei covi del boss di Castelvetrano «meriterebbero analisi molto più approfondita», Giuseppe Paternostro, docente di Linguistica italiana all’Università di Palermo e autore del libro «Il linguaggio mafioso. Scritto, parlato, non detto», inquadra così stile e metodi usati dall’ex latitante per interagire con le persone a lui più vicine, a cominciare dalla maestra Bonafede, notando subito, fra i vari «Amico mio», «Cugino», «Blu», «Venesia», «fragolone», «Margot» «una continuità espressiva con il passato di Cosa Nostra, ma anche tre sostanziali differenze».

Quali sarebbero, professore?

«La prima riguarda i contenuti, perché la rete di controllo e potere che emerge dalla corrispondenza clandestina di Messina Denaro appare meno articolata e ampia rispetto a quella gestita da Provenzano. La seconda differenza, invece, risiede proprio nel linguaggio del boss di Castelvetrano, in cui traspare il gap generazionale con chi lo ha preceduto. Si vede, anzi, si legge l’appartenenza di Messina Denaro al suo tempo, alla sua fase storica, denotata da appellativi e parole che Provenzano non avrebbe mai potuto usare».

Come «Macondo», il nome con cui si faceva chiamare il boss preso in prestito da Cent’anni di solitudine di Marquez? La stupisce questa scelta?

«Per nulla, perché “Macondo” svela subito la terza differenza: Messina Denaro ha una formazione più ampia. Non sto dicendo che l’ex latitante fosse un uomo di cultura, ma di certo, se il linguaggio dei suoi predecessori attingeva al massimo alla tradizione popolare, il suo pesca da un orizzonte un po’ più ampio. Non stupisce neanche il fatto che nei suoi vari covi siano stati trovati oggetti che richiamano certa iconografia mafiosa, mutuata dal cinema, dai film del Padrino».

Perché?

«È l’iconografia diffusa tra gli esponenti di Cosa Nostra della stessa generazione, a conferma che Messina Denaro è uomo del suo tempo: un boss che riprende molti aspetti della tradizione mafiosa aggiungendone però di nuovi o di impensabili rispetto al passato, come i messaggi o i selfie scambiati con i pazienti conosciuti in chemioterapia».

Ma i codici linguistici usati da Messina Denaro sono unici, inventati ogni volta di sana pianta, o hanno un qualcosa di universale?

«Il codice può anche essere costruito di volta in volta, ma le modalità non cambiano, semplicemente perché la lingua è la stessa, e i mafiosi, ma più in generale le persone, non fanno altro che sfruttare le sue possibilità. Cosa Nostra non inventa nulla di diverso di ciò che il linguaggio non consenta già. Semmai, sfrutta in modo diverso, e per finalità illecite, ciò che tutti noi, in modo innocente, usiamo, ossia il principio di economia delle parole: quando parliamo siamo il più possibile impliciti, diciamo molto meno di quello che dovremmo dire, perché sappiamo che il nostro interlocutore è in grado di decodificare il non detto. È un principio linguistico di base, che nel mondo mafioso diventa arma per comunicare ciò che deve rimanere nascosto». (*ADO*)

GdS, 15/4/2023

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