mercoledì, aprile 12, 2023

Le storie di chi accoglie i profughi sull’isola siciliana. «Perché i nostri fratelli devono soffrire e morire in mare?»

di ROBERTO PUGLISI


Palermo - Bisogna pensare ai vivi e ai morti, sull’isola che è un lembo di terra e di speranza. Bisogna pensare a chi sbarca sul molo Favaloro, a Lampedusa, con gli occhi dilatati che gridano gli affanni del corpo e della paura. 

Bisogna pensare a quelli che scendono dalla motovedetta, portati a braccia, dentro un sacco nero, perché il viaggio gli ha sbarrato il passo e li ha uccisi. Bisogna accompagnarli e restituire alle loro fisionomie un sentimento profondo di amore e vicinanza. Eppure, nonostante tutto, laggiù, ogni giorno, accade il miracolo di una umanità che, fra traversate, pericoli e tragedie, riesce a ritrovarsi, come se fosse a casa. «Vorrei che i nostri fratelli migranti non scappassero in questo modo, che ci fossero dei corridoi umanitari per agevolarli. Perché devono soffrire? Perché devono morire in mare?».

Sono le parole di una delle voci di quella speranza dell’approdo. Suor Maria Ausilia, settantasette anni, salesiana di Palermo, si trova a Lampedusa dal 2019. «Con me – spiega – ci sono suor Ines che è italo-americana e suor Paola da Vercelli. Cerchiamo di offrire tutto ciò che abbiamo e che siamo, con umiltà e affetto. Quando c’è uno sbarco siamo sempre al molo, per garantire a chi arriva un bicchiere di tè caldo, qualcosa da mangiare, un succo di frutta o del latte ai bambini che aiutiamo ad accudire. Si piange, quando vediamo le mamme che stringono i loro piccoli, davanti alla strage degli innocenti, quando scorgiamo i sacchi neri con le vittime. Allora, andiamo, come se fossimo parenti, a portare i fiori, a consolare e ad assistere tutti, per quanto è possibile». Il tono con cui suor Maria Ausilia mette insieme le sue esperienze è discreto. Lei accetta di narrare affinché altri vedano e capiscano le emozioni degli esseri umani dentro la mappa delle cartine geografiche. Il timbro conduce all’eco di altri suoni raccolti: un pianto inconsolabile della disperazione, la risata cristallina di un bimbo che può guardare un’altra alba. «Siamo tutti figli di uno stesso Padre – continua il racconto -. Le persone si raddolciscono, quando andiamo al molo e ci ringraziano. Lavoriamo benissimo con la parrocchia e con il parroco, don Carmelo. La Pasqua rappresenta sempre un segno di rinascita. Anche questa volta è così».
Suor Maria Ausilia descrive la strada che ha compiuto, che l’ha portata da un oratorio, dalla scuola dove insegnava, fin sull’isola al centro della storia e della cronaca. «Ricordo la visita di papa Francesco – dice – nel 2013, dopo il terribile naufragio con tantissime vittime, non ho dimenticato i suoi appelli alla collaborazione. Nel 2019 ho ricevuto una telefonata: sei pronta a trasferirti a Lampedusa? Io ero a Capaci, in provincia di Palermo, mi occupavo dei giovani… Ho fatto una bella chiacchierata con il mio confessore e rammento il suo suggerimento: va’ e firma una cambiale in bianco. Questo ha modificato completamente la mia esistenza. All’inizio, nei primi momenti, è stato complicato. Poi, la seconda sera ho visto il porto tutto illuminato, una meraviglia, un dono del Signore. Lì è nato il mio amore per Lampedusa che non è mai venuto meno».

Ci sono le altre voci che si sovrappongono. Quelle che l’amica della solidarietà ha ascoltato nel suo incessante viavai sulla terraferma: «Qualcuno lo chiede a chi arriva – racconta – chiede il motivo del rischio, se non hanno paura di morire in mare. La risposta è sempre quella, invariabilmente: meglio rischiare di morire in mare, che morire di fame, senza tentare nulla».

Tracce preziose, disseminate da mani gentili. A qualcuno, magari, sembreranno piccole cose, rispetto all’impatto di vicende che riguardano contesti mondiali, invece, ecco l’unità di misura che mette ordine e ricuce la prossimità di ogni vita. La Chiesa, in questa trincea, segue i passi delle persone, per non lasciarle sole. E lo fa da sempre.

Don Carmelo Rizzo, quarantasei anni, è parroco da due. La sua voce si aggiunge, ogni giorno, alla fatica di chi cerca di edificare una prospettiva.

«L’impegno è strenuo – dice don Carmelo -. Ci sono i migranti, c’è chi li soccorre, ci sono quelli che recuperano i cadaveri. Ed è normale che ti chiedano una benedizione, o che domandino il perché. Mi chiamano padre, sono un sacerdote e tutti si aspettano, giustamente, la protezione, la paternità. Qui si concretizza il Vangelo, nel senso pieno del termine».

Padre Rizzo è, anche lui, tra i primi, una delle anime instancabili che accorrono, con ogni tempo, quando c’è da precipitarsi al molo Favaloro.

«La cosa più bella – riflette – succede quando dai un sorriso e ne ricevi un altro in condizioni che non possono essere normali. C’è chi ha perso i propri cari, c’è chi si piega, in lacrime, e noi stiamo accanto. A volte è necessario un abbraccio, a volte si piange con chi piange. C’è chi bacia terra per la felicità di essersi salvato. Ero un po’ disorientato, quando sono stato mandato qui. Ora non vorrei essere in nessuna parte diversa del mondo, a celebrare la Pasqua della resurrezione del Signore». Una lontananza che diventa casa, orizzonte e tenerezza. Questo è il miracolo che avviene, ogni giorno e ogni notte, a Lampedusa.

Avvenire, 9 aprile 2023

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