mercoledì, aprile 26, 2023

Adelmo Cervi: «L’antifascismo è un sentimento. Non servono celebrazioni, serve far vivere l’insegnamento»

Adelmo Cervi in Casa Cervi. Foto di Matilde Piazzi 

A 80 anni dall’eccidio dei sette fratelli Cervi, il figlio di uno dei primi antifascisti della storia si racconta in un documentario e apre la sua casa a L’Espresso: «La fiamma di Fratelli d’Italia una vergogna»

di Simone Alliva 

(da Gattatico, Reggio Emilia)

Adelmo Cervi parla del diffuso neofascismo italiano sopravvissuto nei decenni, strisciante nelle cronache, irrobustito nel Paese e batte i pugni sul tavolo, grida: «È uno schifo totale, un obbrobrio per il vivere civile, un insulto alla storia della mia famiglia, a chi ha combattuto per avere un po’ di libertà e un po’ di giustizia in questo Paese». A ogni pugno il tavolo di legno centenario traballa. Siamo in provincia di Reggio Emilia in una casa contadina, la casa della famiglia Cervi ai Campi Rossi di Gattatico, simbolo di un antifascismo generoso incarnato dai sette fratelli che all’alba della guerra partigiana, nel 1943, pagarono con la vita il tentativo di far germogliare la Resistenza in Emilia. Adelmo Cervi è il figlio di Aldo, uno dei fratelli. Ottant’anni anagrafici, trentaquattro percepiti.

Adelmo Cervi, figlio di Aldo Cervi, uno dei 7 fratelli Cervi torturati e fucilati dai fascisti il 28 Dicembre 1943

Nei suoi occhi c’è la forza di quel che si è sempre sentito raccontare, mai vissuto: lieve nostalgia, una passione quasi antropologica per la giustizia: «L’antifascismo è un sentimento. Ma non servono celebrazioni, commemorazioni di morti. Serve far vivere l’insegnamento». Adelmo incarna la storia del nostro Paese. Fisicamente. Le mani nodose che disegnano nell’aria, il volto intenso solcato dalle rughe e dalle responsabilità pesanti di chi da quando è nato coltiva «un sentimento».


«Di mio padre ho sempre conosciuto il mito, mai l’uomo. Chi era veramente, non lo so». Aveva pochi mesi quando è stato ucciso. È di questo che parla “I miei sette padri”, il documentario girato da Liviana Davì. Di un figlio alla ricerca. Di memoria e di assenza. Di cosa resta di un padre che non c’è più eppure è così vivo in ogni celebrazione, in ogni via, in ogni statua, in ogni piazza d’Italia: «Questo mito si è portato via mio padre. Mi ha lasciato in cambio soltanto un nome e una lapide per poi fare di lui un pezzo di un monumento unico, una statua a sette teste, sette uomini, sette vite, sette morti, sette medaglie».

Nell’anno in cui si celebra l’ottantesimo anniversario dell’eccidio dei Cervi, “I miei sette padri” racconta l’eredità dei fratelli antifascisti attraverso lo sguardo di Adelmo, sapientemente circondato di testimonianze inedite: le pellicole 8 mm girate da Mario Cervi (figlio di Agostino) negli anni ’80, i passi tratti dal libro scritto da Adelmo assieme a Giovanni Zucca e ancora foto, documenti e archivi della famiglia.

Per l’occasione a L’Espresso Adelmo apre le porte di Casa Cervi dove il 26 marzo, anniversario della morte di Alcide, padre dei sette, si presenterà in anteprima il film.

Entriamo nella casa-museo che rimanda subito al mondo contadino scomparso: aratri, telai, bidoni per il latte. Ovunque appaiono le immagini dei sette, di papà Alcide Cervi e della mamma Genoveffa Cocconi. Adelmo tutto vestito di rosso è un fiume in piena: l’antifascismo, il governo Meloni, la nuova segretaria del Partito Democratico, le nuove generazioni. «Sono figlio di Aldo Cervi e di Verina Castagnetti. E a dire la verità un po’ ce l’avrei anche su con questo mito. La storia non era di sette comunisti rivoluzionari alla Che Guevara, mio padre era contadino e lo è rimasto. Solo che si è ribellato alle ingiustizie. Ed è la cosa più naturale».

Il padre di Adelmo «era la testa della famiglia». Formatosi in una particolarissima scuola: il carcere di Gaeta dove aveva conosciuto esponenti dei movimenti antifascisti ed intellettuali. Nella vicenda Cervi affondano le radici della Resistenza italiana. La loro vita, la loro lotta, la loro morte. Pur legati alle strutture clandestine del Partito Comunista, erano «indisciplinati» e la stessa allergia alle regole, ai fascismi scorre potente nelle vene di Adelmo.

«Mio padre era non solo antifascista ma anti-capitalista. Questo lo scriva, mi raccomando. L’antifascismo senza l’anti-capitalismo non ha senso. Il fascismo è stato ed è il braccio armato del capitalismo». Dentro queste mura simbolo di prime resistenze, riunioni clandestine, opposizione al regime, ospitalità ai rifugiati: «Il 25 luglio del ’43, giorno in cui fu deposto Mussolini, offrimmo pastasciutta a tutto il paese».

Accogliere chi resiste e resistere insieme. «La casa Cervi è sempre aperta», sottolinea Adelmo che oggi ospita una famiglia ucraina in fuga dalla guerra, madre e figlia.

«La nostra storia parla troppo poco delle donne che hanno portato avanti questa famiglia e mi dispiace. Non erano sette fratelli. C’erano anche due sorelle, cinque vedove. Ma quello era lo spirito del tempo. Anche le partigiane non le chiamiamo mai partigiane ma staffette. Penso spesso a Lucia Sarzi, la prima donna arrestata dal fascismo. Staffetta dicono, ma era una dirigente nazionale che aveva messo in contatto mio padre con Amendola e con coloro che erano dirigenti in Emilia del partito comunista clandestino. Per fortuna stiamo superando anche questa concezione maschilista. Se sei anti-fascista devi essere per forza anche anti-razzista, anti-capitalista. Altrimenti l’anti-fascismo è una parola vuota».

Intersezionale, anti-litteram. «Ho appoggiato Elly Schlein, qualcuno mi ha insultato - sorride amaro – avevo dei compagni nei centri sociali che non hanno amato la mia scelta. Ma conosco Elly da tempo, anche lei come me vuole un partito di sinistra. E sa che le dico? Siccome questo Pd non è mai stato di sinistra era il caso di provarci. Lei è giovane, donna, profuma di aria nuova. Capisce? Di sinistra. Ma non so quanto potrà durare dentro quel partito». Adelmo con il Pd non è mai andato d’accordo, anzi ci ha litigato e parecchio. «Sono ancora arrabbiato per quello schifo votato dal Parlamento Europeo», dice riferendosi alla risoluzione che nel 2019 ha sostanzialmente equiparato sul piano storico il nazismo al comunismo. «Se l’avessero detto ai tempi dei fratelli prendevano legnate. Il nazismo è stata la dittatura più criminale che possa esistere. E poi essere di destra o di sinistra sono cose profondamente diverse per tanti motivi ma per una fondamentale, l’esistenza, il rispetto, il valore, l’amore del prossimo. Per capirlo basta rileggere la nostra Costituzione – una Costituzione antifascista - che spiega all’articolo 2, proprio all’inizio: il valore inderogabile della solidarietà. Rispettare, chiedere giustizia, dare solidarietà. Pensare che c’è sempre chi sta peggio di te».

Quando gli si ricorda del governo di Fratelli d’Italia, il più a destra della storia della Repubblica batte ancora il pugno sul tavolo e urla: «La fiamma! Faccio fatica a parlare di democrazia quando al governo abbiamo qualcuno che gira con quella appiccicata. Un simbolo del fascismo. Certo, hanno diritto ad averla ma io ho diritto di dargli del fascista». Ma come si riconoscono oggi i fascisti? «Sono i boriosi, pensano di essere al di sopra di tutti. Chiunque usi la violenza per imporsi lo è. Per me anche Stalin è stato un gran fascista». È a questo tempo a cui parla e guarda oggi Adelmo, gira l’Italia invitato dai giovanissimi nelle piazze, nelle scuole, nei teatri, nelle loro case come un amico, un compagno. Dall’altra parte riemergono simboli, croci runiche e aquile, giovani fascisti di ritorno, figli dell’odio e del disprezzo: «Forse avendo al governo dei rappresentanti si sono rassicurati. Ma quello che ci deve far pensare è che sono dei ragazzi. Fossero dei vecchi bacucchi lasceremmo perdere. Siamo di fronte alla de-generazione capitalista. Al cinismo egoista e squallido. I genitori insegnano che solo a spese degli altri si costruisce la propria fortuna, ciascuno la sua. I ragazzi mi cercano e capiscono che si può vivere in un mondo serio che non bisogna chiudere con l’ideologia ma con le porcherie. Ogni tanto basterebbe riprendere la nostra Costituzione e fare un pieno di memoria».

Al suo fianco c’è Liviana Davì che conosce Cervi da anni, quando lavorava presso il Museo. Questo documentario nasce nel lontano 2017: «Il suo impegno lungo una vita per l’antifascismo mi ha convinto che fosse il protagonista ideale di questa storia incredibile. Nel film è presente anche la nipote che insieme al nonno cerca in un tempo che non ha conosciuto un presente dotato di senso. È un frammento di storia da tramandare a chi verrà».

L’Espresso, 13/3/2023

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