domenica, luglio 03, 2022

Costantino Visconti a colloquio con Francesco Musotto. “Da avvocato ho difeso mafiosi e terroristi. Il carcere un dolore, la politica è il passato”


COSTANTINO VISCONTI

Francesco Musotto ci dà appuntamento nel suo buen ritiro di Mondello. A pochi metri il via-vai tipico dell’estate palermitana, ma non ne arrivano i rumori. Anche il sole di luglio, filtrato dalle fronde del giardino, si fa meno violento. 

Superato il vialetto d’ingresso ci troviamo davanti a un uomo che ha attraversato le epoche. Già in famiglia è cresciuto con personalità straordinarie, da adulto è stato un avvocato penalista di grido, ha vissuto da protagonista una stagione politica di questa città e ha conosciuto perfino l’esperienza terribile del carcere da innocente. Ne avrebbe da raccontarci. Eppure fin da subito troviamo un uomo che a tratti ci ricorda lo scrivano Bartleby di Melville, quello che si congedava dai suoi interlocutori con il celebre «preferirei di no». Insomma, ha tanta voglia di conversare ma non su tutto.

C.V.

Qual è il Ciccio Musotto che ama ricordare di più?

F.M.

(Con un lampo negli occhi) L’avvocato. Salvo gelosamente tutta la mia esperienza di avvocato, non ho dubbi.

C.V.

Ecco, allora cominciamo da qui. Che avvocato è stato?

F.M.

Per me la professione è sempre stata prima di tutto istinto. Mi picco di aver difeso tutti con uguale scrupolo. È questo che dovrebbe fare un avvocato. Con spirito laico, non bisogna avere pregiudizi sulle persone.

C.V.

Lei era famoso anche per avere difeso sia terroristi sia mafiosi.

F.M.

Sì. E lo rivendico. Addirittura qualcuno andava dicendo che facevo parte di «Soccorso rosso», una sciocchezza. In realtà quelli erano avvocati militanti a tutto tondo, io invece venivo chiamato solo per assisterli quando venivano rinchiusi nelle carceri palermitane e avevo a cuore solo una «giustizia giusta», anche se non soprattutto per i terroristi, i nemici dello Stato di allora. Ne sono orgoglioso.

C.V.

Ne ha tratto qualche insegnamento?

F.M.

Certamente erano esperienze molto intense sul piano umano che mi offrivano un punto di vista privilegiato sulla fase che stavamo vivendo a quel tempo in Italia. Una volta Renato Curcio, capo storico delle BR e detenuto nel supercarcere di Termini Imerese, chiese di incontrare il giudice di sorveglianza. Nell’incontro il magistrato Gebbia gli volle mostrare un’apertura spiegandogli che la pena per la nostra Costituzione deve sempre servire a rieducare. Ma Curcio non ne voleva sapere e rispose a brutto muso: «è lei che dev’essere rieducato». Rifiutava il sistema, non c’era molto da fare. Però capiva il senso della mia presenza lì, al suo fianco. «Lei non è come noi, per questo ci difende», mi disse un giorno.

C.V.

E le difese dei mafiosi?

F.M.

Erano anche quelle una sfida. In qualche modo si aveva l’opinione che a Palermo un bravo avvocato si misurasse su questi processi: più mafiosi avevi come clienti, più eri engagé. Però bisognava guardarsi dal diventare il punto di riferimento esclusivo di alcune famiglie. Troppa vicinanza avrebbe collocato in una situazione ambigua, ben al di là di quanto il mandato difensivo non richiedesse. A me è capitato di difendere spesso figure di secondo piano. Sigarettari, li chiamavano, con malcelato disprezzo nel loro mondo. Era un modo per dire che si occupavano del contrabbando di sigarette o, comunque, di affari minori.

C.V.

In fondo la toga, la giustizia penale, era per lei un abito familiare. Suo padre è stato uno dei più grandi penalisti italiani, insegnava diritto penale all’Università di Palermo. A lui si debbono studi importanti, soprattutto su autori tedeschi.

F.M.

Papà lo ricordo sempre sui libri, si dedicò poco alla professione. Studiava sempre. Praticamente non ho altri ricordi di lui. In realtà il mio modello è il nonno Francesco, anche lui detto Ciccio. Ho sempre sentito di assomigliargli un po’. Sia per il piglio con cui ha affrontato la professione di avvocato, sia per la passione politica. Ma lui era davvero un personaggio straordinario!

C.V.

Ce ne vuole parlare?

F.M.

Mio nonno Francesco fu un uomo di grandissime passioni. Socialista da sempre, fu il primo Alto commissario per la regione Sicilia quando sbarcarono gli alleati. Fu poi membro della costituente e a lungo parlamentare col Psi. Ho trascorso molto tempo con lui, da bambino. Un giorno volle portami con sé a Roma. Avevo nove anni. A Montecitorio mi presentò un po’ a tutti. Conobbi allora Bernardo Mattarella. Ricordo anche che quando mi presentò alla senatrice Merlin, socialista anche lei e lui non nascose il suo scetticismo per le sue battaglie per la chiusura delle case di tolleranza: «e se stesse facendo un sacco di danni?», mi sussurrò in corridoio. In fondo lui era pur sempre un uomo dell’altro secolo ancora: era nato nel 1881.

C.V.

Lei però ha scelto di dedicarsi alla politica solo nel 1994.

F.M.

In realtà a me la politica ha sempre appassionato. Sin da ragazzo ho militato nel Psi e sono stato segretario dei giovani socialisti. Mi piaceva moltissimo fare i comizi: il primo lo feci ad Aliminusa a 18 anni. Però è vero, è con Forza Italia che mi sono poi candidato alla presidenza della Provincia. Un successo strepitoso: 320 mila voti.

C.V.

Questa scelta le è costata. Fu sottoposto a indagini, l’arrestarono e trascorse anche qualche mese in carcere.

F.M.

Un periodo assurdo. Ricordo ancora le settimane precedenti all’arresto… tanti amici (e non) mi incontravano e mi dicevano «Ciccio, ti stanno per arrestare…», come se tutti sapessero che il mio destino era segnato. Trovarsi in cella con la consapevolezza di essere innocenti è davvero una prova umanamente difficilissima. Ho avuto anche una conferma rispetto a una convinzione che da avvocato avevo maturato ben prima: le carceri sono piene di persone che non dovrebbero stare lì. La macchina della giustizia penale fa molti errori. C’è gente che non c’entra nulla, che avrebbe dovuto essere ascoltata di più dagli inquirenti e forse anche difesa meglio. Poi nell’aprile del 1998 fui assolto. Quell’esperienza mi segnò talmente che smisi di fare l’avvocato. Da allora non l’ho più fatto. Tornai nell’agone politico, invece.

C.V.

Ancora di recente, in risposta alle critiche di Giuseppe Di Lello, Giancarlo Caselli su questo giornale ha in qualche modo rivendicato la plausibilità di quelle accuse.

F.M.

Si, ho letto. Di Lello grande magistrato e persona intelligente. Caselli ha quantomeno la memoria corta, forse: sono stato assolto in primo grado, in appello e infine la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso contro la mia assoluzione proposto dalla procura. Diciamo che la sua incapacità a prendere atto di una sonora sconfitta processuale la dice lunga sulla cultura che alligna in una parte della magistratura italiana. Ma non provo neanche un pizzico di rancore, anzi comprendo meglio i limiti da cui è tormentato ciascuno di noi…

C.V.

Ha nostalgia dell’impegno politico?

F.M.

No, per niente. Anzi credo che sarei dovuto uscire prima di scena. Non rifarei la scelta, compiuta alla fine del mio percorso, di imbarcarmi nell’avventura politica con Lombardo, persona che mi ha deluso molto. D’altro canto ho avuto molte soddisfazioni. Due mandati alla guida della Provincia, due al Parlamento europeo e una legislatura all’Ars, ogni volta riscontrando una gratificante seguito popolare. Anche quando uscii da Forza Italia per candidarmi a sindaco nel 2001: persi con Cammarata ma presi più voti del candidato del centro-sinistra.

C.V.

C’è qualcosa che si rimprovera?

F.M.

Non mi pongo troppo il problema e a dir la verità guardo a quel passato con molto distacco. Certo, probabilmente si poteva fare di più e meglio. C’è una generazione, quella mia e di Leoluca Orlando per intenderci, che con gli studi al Gonzaga è stata predestinata ad assumersi responsabilità da classe dirigente. I posteri avranno il tempo e il giusto discernimento per valutare. Intanto posso dire che la più grande difficoltà era quella di doversi misurare continuamente con la ricerca del consenso, non solo per se stessi ma anche per amici di partito e alleati, senza la possibilità di programmare azioni politico-amministrative di più ampio respiro e durature nel tempo. E lo è ancora adesso, credo. Una vera propria trappola.

C.V.

Nell’87 si disse che Cosa nostra votò Partito socialista. Le risulta?

F.M.

Che si disse è noto. Però io non ho mai avuto riscontri. Può anche darsi che alcune battaglie sulla giustizia del Psi siano state strumentalizzate, non lo escludo. Ma non ci fu nessun rapporto fra il partito e la mafia.

C.V.

A proposito, lei rivendica un rapporto molto cordiale con Falcone.

F.M.

Si, avevamo un ottimo rapporto. Conservo ancora delle belle foto con lui nella mia campagna di Pollina. Era una persona di finissima intelligenza. Avevamo un confronto assai franco. Ovviamente non si parlava mai di processi, ma discutevamo sui grandi temi della giustizia con quello spirito laico che ci accomunava. Fui io, del resto, a metterlo in contatto per il tramite di Salvo Andò con il ministro della giustizia Martelli che lo voleva a suo fianco. Quando una volta lo andai a trovare al ministero mi raccontò dei suoi progetti. Aveva grandi idee.

C.V.

Con Borsellino, invece, che rapporti ha avuto?

F.M.

Non ci siamo mai frequentati. Però ci conoscevamo perché, oltre ad essersi laureato con mio padre, sposò Agnese, che era la figlia di Piraino Leto, uno dei più cari amici di papà.

C.V.

Sta seguendo il dibattito sulla giustizia? Cosa è cambiato da quando lei se ne occupava in prima persona?

F.M.

Come le dicevo, oggi seguo poco la politica. Non mi appassiona più. Però credo che bisogna un po’ ridimensionare i termini dello scontro per come vengono oggi rappresentati dai media. Si tende a drammatizzare molto, ma in fondo – anche se diversamente declinato – si tratta sempre del solito confronto fra garantisti e giustizialisti che ogni tanto assume toni più accesi. Nulla di nuovo.

C.V.

Le conversazioni si concludono con un consiglio letterario (ma abbiamo un sospetto...)

F.M.

La mia passione di sempre: il Melville di Moby Dick!


GdS, 3 luglio 2022

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