venerdì, luglio 01, 2022

IL LIBRO INCHIESTA. Paolo Borsellino, un mistero alla luce del sole


di PIERO MELATI

A trent’anni dalla strage si può dire che anche il caso del magistrato sia stato “stropicciato e manomesso” 

Lunedì si presenta “Paolo Borsellino, per amore della verità”, il libro che ha scritto Piero Melati con le parole di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, figli del giudice ucciso dalla mafia il 19 luglio del ’ 92. Ecco l’introduzione 

Il caso di Paolo Borsellino e della sua famiglia assomiglia alla Lettera rubata, il racconto poliziesco di Edgar Allan Poe, scritto nel 1845 per la rivista Chambers’Edinburgh Journal. Nella prova d’autore dello scrittore americano, che si dice abbia fondato il genere letterario del giallo, la lettera rubata era stata nascosta «sotto il naso del mondo intero». Anche nel caso Borsellino, quanto accaduto è stato occultato davanti agli occhi di tutti noi. Un segreto seppellito in bella evidenza.

Siamo esattamente di fronte allo stesso problema sollevato da Poe nel suo celebre racconto. In quel caso, la polizia setaccia palmo a palmo la casa di un ministro per ritrovare un’epistola sottratta, che consente al malfattore di perpetrare i suoi ricatti. Ma per quanto smontino pezzo dopo pezzo l’abitazione, gli agenti non riescono a trovarla da nessuna parte. 

Eppure la lettera è certamente nascosta lì, in quelle stanze. Allora perché non si riesce a scovarla? Spiega il protagonista della storia: «Non conoscono cambiamenti di principio nel loro sistema di investigare […] estendono o esagerano i loro vecchi sistemi […] ma i principi non li toccano mai». E infatti, la lettera è diventata invisibile grazie a un semplice e banale accorgimento: era stata celata dentro un portacarte, appeso al muro in bella vista, con la busta che la contiene stropicciata e manomessa di proposito, come fosse un oggetto di nessun valore, con «gli orli della carta… più logori di quello che non sembrasse necessario». 

Possiamo dire, a trent’anni dalla strage di via D’Amelio, che anche il caso Borsellino è stato «stropicciato e manomesso» all’inverosimile, proprio come la lettera di Poe, persino più di quanto non fosse necessario. E tutto è stato camuffato alla luce del sole, al fine di nascondere l’evidenza. Solo che noi, succubi di «vecchi sistemi» di lettura (e d’investigazione), non siamo riusciti a vedere. Eppure quanto accaduto è davanti ai nostri occhi. E allora, come possiamo spezzare almeno oggi questo malefico incantesimo? La prima parte di questo libro tenta di ricostruire un ritratto corale e inedito di Paolo Borsellino. Si ripercorrono episodi e momenti importanti della sua vita, anche con l’ausilio di nuove testimonianze. 

Nella seconda parte si cerca di capire che cosa rimane per il nostro futuro della sua lezione di vita. In entrambi i casi il punto di vista dei tre figli, Lucia, Fiammetta e Manfredi, è stato decisivo per gettare luce su nuovi aspetti sia privati sia di rilevanza collettiva, finora sconosciuti. Senza la loro disponibile generosità questo lavoro non sarebbe mai stato possibile. Dal molto che è stato detto e scritto, per esempio, è sempre stato omesso un pezzo decisivo, destinato a illuminare anche la storia precedente. Si tratta di un anello mancante: quanto accaduto, dopo l’attentato, alla famiglia Borsellino, alla moglie e ai figli. Se messa nel giusto ordine, e non più liquidata come una sequenza di episodi casuali tra di loro sconnessi, la storia della famiglia ci farà comprendere un unico, drammatico disegno. E questo finirà per accendere la luce su molti degli angoli bui, e in apparenza illeggibili, dell’intera vicenda. I tre figli di Borsellino, dopo una faticosa battaglia durata tre decenni, si sono conquistati solo negli ultimi anni il pieno diritto alla parola. E ora rivendicano il ripristino di una verità storica, ancora possibile, come un patrimonio irrinunciabile dell’intera collettività nazionale. Lo hanno fatto con grande sobrietà e rispetto nei confronti delle istituzioni. 

E ciò ci porta subito a un secondo aspetto importante di questa lunga vicenda: quel che resta ancora oggi di Paolo Borsellino, la sua vera lezione, l’eredità, l’insegnamento. Si tratta di un piccolo tesoro sui valori della giustizia e sui nostri pubblici comportamenti, decisivo per costruire un futuro migliore. 

Mai come nell’affaire Borsellino, in questa epopea di mafia, tribunali e anniversari c’è in sintesi la storia della Sicilia e del suo controverso rapporto con la nazione. Come nel palcoscenico di un grande teatro, prima e dopo la strage di via Mariano D’Amelio, si sono presentati tutti i caratteri dell’universo umano. Ne viene fuori un grande romanzo, dentro il quale la realtà supera enormemente ogni letteratura. Un romanzo che si è scritto da solo, con il tradimento, il dolore, il coraggio, l’etica. Nessuno di noi, oggi, è capace ancora di restituirlo per intero. Ma possiamo provare a disegnare inediti ritratti, affinché poi ognuno possa contribuire a completare l’opera. In questa lunga storia non ci sono autori e lettori, attori e pubblico. C’è solo il nostro comune destino e, dentro di esso, un messaggio nascosto che ci riguarda da vicino e che solo adesso possiamo riscoprire. 

Questa storia inizia il 7 gennaio 1982, quando nel quartiere Brancaccio di Palermo viene ucciso a revolverate Michele Graviano, incensurato, padre di Giuseppe Graviano, che il 19 luglio di dieci anni dopo azionerà il telecomando dell’autobomba in via D’Amelio. 

Quando gli uccidono il padre, Giuseppe ha diciannove anni. La stessa età di Fiammetta Borsellino, quando lui — a sua volta — le uccide il padre Paolo. Anche di questo parleranno, Fiammetta e Giuseppe Graviano, quando la figlia di Borsellino andrà a incontrare il boss (un fatto senza precedenti) nel supercarcere di Terni. Vittime e carnefici. L’omicidio di Graviano padre è l’episodio più misterioso tra i mille morti della guerra di mafia siciliana degli anni Ottanta. Se lo attribuì, tanti anni dopo, il pentito Gaetano Grado, ed è stato rubricato come un tassello della faida sanguinaria che divise i «padrini» palermitani Bontate e Inzerillo dai corleonesi di Riina e Provenzano. Ma era solo quello? Michele Graviano era stato il primo a raccogliere venti miliardi di lire tra i boss siciliani, per investirli nell’economia del Nord Italia. E prima di venire ucciso nelle strade del suo quartiere, era già scampato a un attentato nel 1979 (ferito a un piede, avevano dovuto amputarlo). Quel fallito attentato avveniva all’indomani del finto sequestro inscenato in Sicilia dal bancarottiere Michele Sindona, il primo caso di riciclaggio da parte della mafia degli enormi proventi del traffico internazionale di droga, e insieme il primo tentativo di «ripulire» i narcocapitali e farli entrare nel giro dell’alta finanza. Altro che beghe di quartiere, dunque. 

I soldi di Sindona scomparvero nel nulla, e i mafiosi si accusavano a vicenda di averli bruciati. Come vedremo, proprio un’analoga pista dei soldi stava battendo Paolo Borsellino, poco prima di venire ucciso. Perché ci è stata occultata tutta questa storia, in trent’anni di inchieste e processi? All’ultimo dibattimento in corso dedicato all’affaire Borsellino, nell’aprile 2022, il pubblico ministero di Caltanissetta Stefano Luciani ha ribadito quanto già acclarato dalla Cassazione: «C’è stato il più grande depistaggio della storia». Per poi aggiungere, facendo appello ai coinvolti: «Sono passati trent’anni, se c’è stato dell’altro ditelo». Mattia Feltri, a commento delle parole del pm, ha scritto su La Stampa: «Le più alte corresponsabilità della morte di Borsellino […] sono coperte e ignote da anni, salvo poi versare la lacrimuccia coccodrillesca a ogni ricorrenza». Non sembri esagerato: la partita è proprio questa. Siamo di fronte a tante «verità di regime», coadiuvate da «bugie di regime», supportate infine da una «fabbrica di sentimentalismo» chiamata a gestire le ricorrenti commemorazioni ufficiali, al fine di farci battere il petto e subito dopo non pensarci più. 

Se vogliamo marcare la differenza con gli onori conferiti dai regimi autoritari, elargiti a bella posta per coprirne gli orrori, una democrazia deve ritrovare almeno in un briciolo di verità la sua unica, possibile legittimazione. Quel briciolo varrà più di ogni mastodontica e vana architettura retorica. 

La Repubblica Palermo, 1/7/2022

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