mercoledì, luglio 06, 2022

Mafia e religiosità popolare. A proposito della processione di S. Giovanni evangelista a Corleone del 31 maggio 2016, la Corte di Cassazione conferma la sentenza di condanna per chi ha ordinato la fermata davanti casa Bagarella/Riina

di ANDREA LEBRA


Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore. Oggi abbiamo bisogno di uomini e di donne di amore, non di uomini e donne di onore; di servizio, non di sopraffazione (papa Francesco, omelia del 15 settembre 2018 nel corso della celebrazione eucaristica nella memoria liturgica del beato Pino Puglisi).

Risponde del reato – previsto dall’art. 405 del codice penale – di turbamento di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto di una confessione religiosa chi, in occasione della processione in onore di un santo, ordina, per ben due volte e senza che ve ne sia ragione alcuna, ai portatori dell’impalcatura sulla quale poggia la statua del santo di fermarsi davanti all’abitazione di un noto boss mafioso in segno di ossequio e di rispetto nei confronti della sua famiglia.

Ai fini dell’integrazione del reato ciò che viene in rilievo è la dimensione spirituale del bene protetto, la cui tutela consiste nell’impedire che la funzione religiosa possa essere distolta da comportamenti che offendono o sono in contrasto con la sensibilità religiosa dei fedeli che vi partecipano e con i valori espressi dalla fede da essi professata.

È quanto stabilito dalla terza sezione penale della Corte di Cassazione con sentenza n. 2242 del 2022, confermando quanto deciso dalla Corte d’appello di Palermo il 19 giugno 2020 e dal Tribunale di Termini Imerese il 23 ottobre 2018.

Al di là dei profili prettamente giuridici, il contenuto della sentenza è di notevole rilevanza sociale e contribuisce a consolidare l’idea che il sentimento religioso, fermo restando il principio costituzionale della laicità dello Stato, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti.

L’episodio, all’origine della pronuncia della Corte di Cassazione, non è il primo, mentre risulta essere la prima volta che la medesima Corte considera reato la riprovevole e ambigua usanza, riscontrabile in alcune zone del Sud Italia, di far sostare le processioni religiose popolari davanti all’abitazione di boss locali della malavita come segno di omaggio e di rispetto nei loro confronti.

In genere, il fercolo (o vara), cioè la lettiga sulla quale è poggiata la statua del santo, viene leggermente inclinato (a mo’ di inchino) in direzione dell’abitazione, su indicazione della persona incaricata dall’autorità religiosa o dal comitato dei festeggiamenti a dare indicazioni sui movimenti da effettuare durante la processione.

Il fatto

Il 31 maggio del 2016, nel corso di una processione religiosa a Corleone, L.G., in qualità di capo-vara della processione e imparentato con le famiglie Bagarella e Riina, senza che ve ne fosse ragione alcuna (viabilità, calca dei fedeli, necessità di rinfrancare i portatori della statua) ordinò ai portatori del fercolo di San Giovanni evangelista di “sostare” davanti alla casa della moglie e dei familiari di Totò Riina.

Le soste, ognuna di pochi secondi e alla presenza del parroco Domenico Mancuso, furono due: l’una in corrispondenza del civico 22 di via Scorsone (strada poi intitolata al giudice Cesare Terranova assassinato nel 1979 dalla mafia corleonese), l’altra immediatamente dopo il civico 24 della stessa via.

Motivo? Ossequiare la famiglia del defunto capo dell’associazione di tipo mafiosa denominata “cosa nostra”.

Al momento del passaggio della processione l’abitazione – sempre chiusa in occasione del medesimo evento negli anni precedenti – era insolitamente illuminata, le finestre aperte e vi erano affacciate due sorelle della moglie di Riina, Ninetta Bagarella, e una sorella dello stesso Totò Riina.

Il fatto fu denunciato alla Procura distrettuale antimafia dai poliziotti e dai carabinieri presenti per motivi istituzionali alla processione che, dopo l’accaduto, abbandonarono senza indugio e in segno di dissociazione quella che, da iniziale manifestazione di una devozione popolare in onore di un santo, si era trasformata in una plateale e provocatoria volontà di riaffermare l’influenza sul territorio di una nota famiglia mafiosa.

«Dinanzi al ripetersi di tanti delitti, e così efferati, in tutto il suolo della nostra Italia, e in alcune regioni in modo parti­colare, dobbiamo prendere sempre più coscienza, ognuno per la parte e per la responsabilità che lo riguarda, di quanto presenti, forti e tracotanti siano le forze del male che operano nella nostra società, per tutelare e difendere i loschi interessi di potenti fazioni, variamente denominate, terrorismo, ca­morra, mafia… che possono permettersi di affrontare aperta­mente lo Stato, offendere e umiliare le sue istituzioni, col­pire i suoi uomini migliori…

Si sta sviluppando invece – e ne siamo costernati spettatori – tutta una catena di violenze e di vendette tanto più impor­tanti perché, mentre così lente e incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti – siano privati cittadini che funzionari e autorità dello Stato – quanto mai decise, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti per colpire… Sovviene e si può applicare una nota frase della letteratura latina: «Dum Romae consulitur… Saguntum expugnatur», mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici! E questa volta non è Sagunto ma Palermo. Povera Palermo!» (Palermo, Chiesa di San Domenico, 4 settembre 1982, funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro, parole del vescovo di Palermo Salvatore Pappalardo).

Sulla base della puntuale e concorde ricostruzione della vicenda da parte dei due rappresentanti delle Forze dell’ordine, il giudice monocratico del tribunale di Termini Imerese condannò L.G. alla pena ritenuta di giustizia. Condanna confermata dalla Corte di Appello di Palermo e resa, ora, definitiva dalla Corte di Cassazione.

La turbatio sacrorum

Prima di entrare nel merito delle motivazioni della suprema Corte, è utile soffermarsi brevemente sul reato contestato all’imputato.

Si tratta del reato di cui all’articolo 405 del codice penale, rubricato Turbamento di funzioni religiose del culto di una confessione religiosa, che recita testualmente: «Chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto di una confessione religiosa, le quali si compiano con l’assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è punito con la reclusione fino a due anni. Se concorrono fatti di violenza alle persone o di minaccia, si applica la reclusione da uno a tre anni».

Si è soliti riferirsi ad esso con il più sintetico termine turbatio sacrorum, idoneo a richiamarne le radici storiche rinvenibili nel diritto romano tardoantico.

La ratio del reato in questione va individuata nella tutela della libertà di culto, nella sua dimensione collettiva e di fenomeno sociale aggregativo.

Esso può essere perfezionato da due distinte condotte antigiuridiche: l’impedimento della funzione religiosa, consistente nell’ostacolare l’inizio o l’esercizio della stessa fino a determinarne la cessazione, oppure la turbativa della funzione stessa, che si verifica quando il suo svolgimento non avviene in modo regolare.

Lo scopo è quello di tutelare ogni funzione religiosa, di qualunque confessione. Nella nozione di funzione religiosa non rientra solo la celebrazione eucaristica, ma ogni tipo di esternazione del culto (matrimoni, funerali, battesimi, processioni e altre funzioni religiose specifiche).

Per assumere rilievo dal punto di vista penale, la condotta deve essere compiuta in determinate circostanze di tempo e di luogo, cioè durante l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto di una confessione religiosa, che si compiono con l’assistenza di un ministro del culto o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico.

Esempi di turbatio sacrorum

Esempi di turbamento di funzioni religiose sono elencati dalla sentenza in esame. Così, nella giurisprudenza penale della Corte di Cassazione integra la condotta del turbamento:

  • il collocamento dei tavolini in strada al fine di imporre una sosta della processione dinanzi ad un esercizio commerciale (Sez. 6, n. 8055 del 01/03/2021);
  • il manifestare con grida all’interno della Chiesa, proferendo ingiurie alle autorità civili presenti a un funerale (Sez. 6, n. 28030 del 09/07/2009);
  • il semplice distogliere l’attenzione dei fedeli o il denigrare la figura del ministro del culto (Sez. 3, n. 621 del 11/05/1967; Sez. 3, n. 369 del 06/03/1967);
  • il gettare a terra l’ostia consacrata e calpestarla, generando un trambusto tra i detenuti presenti alla celebrazione dell’eucaristia in carcere (Sez. 3 n. 23337 del 15/06/2021);
  • nel pregare ad alta voce al fine di coprire la voce dei celebranti e degli altri fedeli e insultando e minacciando reiteratamente i celebranti e gli altri fedeli alle funzioni (Sez. 3, n. 3072 del 23/01/2017).

Contenuto della sentenza della Corte di Cassazione

Si può considerare turbata o impedita una processione a causa di due fermate di pochi secondi davanti ad una casa di un mafioso responsabile di efferati delitti, disposte da chi ha il compito di organizzarla?

Secondo le corti di merito e i giudici di legittimità, alla domanda si deve rispondere positivamente.

Al concetto di “turbamento” o di “impedimento”, infatti, va data una lettura non esclusivamente materiale, ma facendo riferimento al bene giuridico protetto.

Nel considerato in diritto della sentenza la Cassazione afferma testualmente: «il turbamento di una funzione/pratica/cerimonia religiosa rileva non solo (e non tanto) sotto il profilo materiale ma anche sotto quello della strumentalizzazione della funzione a scopi totalmente contrari al sentimento religioso di chi vi prende parte, ai valori da esso espressi, nei quali il sentimento religioso di ciascuno si riconosce e che la funzione intende evocare e onorare».

«Ciò che viene in rilievo è la dimensione spirituale del bene protetto la cui tutela consiste fondamentalmente nell’impedire che la funzione religiosa possa essere distolta e utilizzata per scopi che offendono o sono in contrasto con la sensibilità religiosa dei fedeli che vi partecipano e con i valori espressi dalla fede professata».

«Il fatto che – puntualizza la Corte – non sia stato effettuato il c.d. inchino costituisce una mera variabile che non esclude, in sua assenza, la materialità del fatto: l’inchino, semmai, l’avrebbe solo reso più grave».

Tutela del sentimento religioso e principio di laicità

La sentenza in esame è di interesse per altri due motivi.

Da un lato, ricorda che «il sentimento religioso, quale vive nell’intimo della coscienza individuale e si estende a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti», come risulta dalla lettura coordinata di numerosi articoli della Costituzione italiana.

La sua protezione assume «il significato di un corollario del diritto costituzionale di libertà di religione, corollario che, naturalmente, deve abbracciare, allo stesso modo, l’esperienza religiosa di tutti coloro che la vivono, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede delle diverse confessioni».

Dall’altro lato, la sentenza riafferma che il principio costituzionale della laicità e non confessionalità dello Stato «non significa indifferenza di fronte all’esperienza religiosa», ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale.

Si può, al riguardo, fare riferimento a quanto esplicitato dalla famosa sentenza n. 24414 del 9 settembre 2021 con la quale le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione si sono pronunciate sulla possibilità di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche (cf. Il crocifisso nelle scuole: non obbligo ma facoltà, di Andrea Lebra, in Settimananews n. 39/2021).

La laicità italiana non è neutralizzante: non nega le peculiarità e le identità di ogni credo e non persegue un obiettivo di tendenziale e progressiva irrilevanza del sentire religioso, destinato a rimanere nell’intimità della coscienza dell’individuo.

La laicità della Costituzione italiana si fonda su un concetto inclusivo e aperto di neutralità e non escludente di secolarizzazione: come tale, riconosce la dimensione religiosa presente nella società e si alimenta della convivenza di fedi e convinzioni diverse.

Il principio di laicità non nega né misconosce il contributo che i valori religiosi possono apportare alla crescita della società; esso mira, piuttosto, ad assicurare e valorizzare il pluralismo delle scelte personali in materia religiosa nonché a garantire la pari dignità sociale e l’eguaglianza dei cittadini.

La nostra è una laicità aperta alle diverse identità che si affacciano in una società in cui hanno da convivere fedi, religioni, culture diverse: accogliente delle differenze, non esige la rinuncia alla propria identità storica, culturale, religiosa da parte dei soggetti che si confrontano e che condividono lo stesso spazio pubblico, ma rispetta i volti e i bisogni delle persone.

Ed è una laicità che si traduce, sul piano delle coscienze individuali, nel riconoscimento a tutti del pari pregio dei singoli convincimenti etici nella costruzione e nella salvaguardia di una sfera pubblica nella quale dialogicamente confrontare le varie posizioni presenti nella società pluralista.

settimananews.it, 6 luglio 2022


http://www.settimananews.it/diritto/mafia-religiosita-popolare/

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