domenica, febbraio 19, 2023

I cittadini in campo. L’intervista a Maurizio Landini, segretario generale Cgil: «L’Europa ritrovi il suo ruolo»

Maurizio Landini

«Sono sinceramente preoccupato – e contrariato – da un summit europeo che oggi, anziché esplorare tutte le possibilità per arrivare a un negoziato di pace in Ucraina, si occupa solo di quali e quante armi fornire a Kiev». 

Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, non nasconde i timori per un cessate il fuoco che appare ancora lontano, mentre un allargamento e un’escalation del conflitto si fanno più incombenti e minacciosi. Tanto da rendere ancora più urgente una nuova mobilitazione del sindacato assieme al movimento pacifista.

Segretario, avete aderito alla marcia straordinaria per la pace PerugiAssisi e avete deciso due giorni di mobilitazione di tutte le strutture Cgil. Ma come si realizzerà questo impegno e con quali obiettivi?


Questo era l’impegno che avevamo assunto nella manifestazione di piazza San Giovanni: continuare a mobilitarci fin quando non si fosse arrivati a un cessate il fuoco per avviare negoziati di pace. La nostra mobilitazione sta diventando importante: il 24 alla PerugiAssisi e il 25 febbraio a Roma e poi saranno coinvolti in Italia quasi un centinaio di province e territori e anche all’estero si stanno tenendo manifestazioni e iniziative in molte città d’Europa. Il nostro obiettivo è rendere evidente la necessità di affermare la pace, di superare la guerra e creare le condizioni affinché si crei una società più giusta che non sia fondata sullo sfruttamento delle persone e sull’aumento delle diseguaglianze. La lotta per la pace contro la guerra, mai come oggi, è collegata anche alla battaglia per una società più giusta, che rimette al centro la persona e la giustizia sociale. La forza di queste manifestazioni è che vede protagonista un movimento amplissimo, che non coinvolge solo organizzazioni sindacali, ma si fonda su una partecipazione significativa di associazioni laiche e cattoliche, di tantissime persone che sentono la necessità di non stare zitti a guardare. Perché non si può accettare quello che sta succedendo in Ucraina e in molte altre parti del mondo.

Ma non rischia di essere un’iniziativa velleitaria, per mettersi a posto la coscienza?
Se vogliamo abbiamo anche un obiettivo utopico: quello di affermare che per dare un futuro al nostro pianeta la guerra va cancellata, va superata del tutto come strumento di regolazione dei rapporti tra le persone e tra gli Stati. Anche perché quello che non può essere taciuto è che siamo sull’orlo del baratro di una guerra nucleare. Un rischio che può mettere a repentaglio la vita stessa del genere umano sul pianeta. Mobilitarsi per la pace, allora, non è né velleitario né illusorio, ma rappresenta il massimo di realismo che si può mettere in campo. 

E come rispondete invece a chi pensa che così si resti equidistanti rispetto ad aggredito e aggressore, di fatto “assolvendo” quest’ultimo e chiedendo all’aggredito la resa?
Non siamo ora e non siamo mai stati equidistanti. Proprio perché siamo contro la guerra, ci siamo sempre schierati innanzitutto contro chi quella guerra l’ha scatenata. E questo lo abbiamo espresso in modo molto chiaro. La riflessione che dovremmo fare tutti assieme, però, riguarda il momento attuale, nel quale purtroppo anziché essere vicini a un cessate il fuoco e all’apertura di negoziati, continuano bombardamenti e attacchi, siamo nel pieno di una corsa al riarmo come non si è mai vista da 40 anni a questa parte, corriamo il rischio che si scateni una terza guerra mondiale e si ricorra all’uso dell’arma atomica. Credo che qualsiasi persona di buon senso non possa rimanere a guardare ciò che sta succedendo. Mobilitarsi, allora, è il modo migliore per essere vicino a chi è stato aggredito, agli ucraini, affinché possano nuovamente vivere in pace e pensare a come ricostruire e far sviluppare il loro Paese.

Che cosa chiedete in particolare alla politica italiana e alle istituzioni sovranazionali?
La nostra richiesta è che si faccia ogni sforzo per arrivare innanzitutto a un cessate il fuoco e che la diplomazia politica, ad ogni livello, agisca perché si apra finalmente una vera conferenza di pace, come peraltro hanno chiesto da tempo papa Francesco e il presidente della Repubblica Mattarella. Questo percorso secondo noi è l’unica possibilità realistica per evitare che la guerra continui a mietere vittime e si allarghi a tutto il mondo. L’Europa – che proprio sulla pace si è ritrovata e unita dopo la seconda guerra mondiale – ha in questo percorso una responsabilità ancora più grande. Io sono preoccupato nel vedere il summit oggi in corso che anziché discutere di come si costruisce la pace, si occupa solo di come armare l’Ucraina e l’Europa stessa. È un errore enorme e quindi noi chiediamo, sia al nostro governo sia alle istituzioni sovranazionali, che mettano in campo tutte le iniziative diplomatiche necessarie per impedire che si avvii una guerra nucleare, per fermare il conflitto in Ucraina e impegnarsi per far cessare le tante guerre che purtroppo si combattono nel mondo. Dobbiamo tornare a impegnarci, e a spendere, solo per finanziare cibo e medicine per tutti, per creare lavoro e per difendere il nostro pianeta, per un nuovo modello di sviluppo.

Anche su questo state riflettendo nel percorso congressuale che si concluderà tra il 15 e il 18 marzo a Rimini? Quali sono gli obiettivi e le priorità della Cgil?
Il primo obiettivo è che il lavoro deve essere stabile e non precario. Denunciamo il livello di precarietà e di sfruttamento a cui siamo arrivati e chiediamo che si agisca per cambiare rotta. Cominciando a superare le leggi sbagliate approvate in questi anni, compreso il Jobs act. Dobbiamo invece investire sui diritti delle persone e fare in modo che tutti - siano lavoratori subordinati, autonomi o a partita Iva – abbiano gli stessi diritti e le stesse tutele. Per farlo occorre anche investire sui contratti nazionali, estendendone l’applicazione e facendo crescere i salari oltre l’inflazione, perché non è possibile oggi avere lavoratori poveri. Ma c’è bisogno anche di una profonda riforma fiscale, perché non è giusto che la rendita finanziaria nel nostro Paese sia tassata meno del lavoro e delle pensioni e soprattutto non è più accettabile che ci siano oltre 100 miliardi di evasione fiscale. Occorre ripristinare il patto di cittadinanza per il quale ognuno contribuisce secondo le sue reali capacità contributive. Come peraltro prevede la nostra Costituzione. E poi investire soprattutto sulla creazione di nuova occupazione, su sanità e scuola, perché il diritto al lavoro, alla salute e all’istruzione devono essere universali. E il messaggio che noi mandiamo con il nostro congresso è che vogliamo unire l’Italia, oggi ancora troppo divisa e diseguale, e perciò siamo fermamente contrari all’idea dell’autonomia differenziata che viene proposta.

Proponete anche la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, con la settimana di 4 giorni. Ma è possibile con la nostra produttività che è stagnante da 20 anni?
Sì, la rivoluzione tecnologica in atto sta cambiando non solo i prodotti e il lavoro, ma anche i comportamenti e i sistemi di vita. C’è bisogno allora di ragionare anche del tempo di lavoro e del tempo di vita e pensiamo che proprio i margini di maggiore efficienza e produttività che le nuove tecnologie offrono non debbono andare ad aumentare i profitti ma vadano redistribuiti per creare lavoro e anche ridurre gli orari. Ridurre la settimana lavorativa a 4 giorni significa anche destinare tempo di lavoro alla formazione e allo studio delle persone. La nostra idea è che le persone siano pagate anche per poter studiare, per potersi aggiornare, perché ciò significa valorizzare i lavoratori, difenderli meglio e affermare un lavoro di qualità. La settimana di 4 giorni lavorativi per noi comporta la disponibilità a ragionare di possibili turnazioni anche su 6 giorni (sabato compreso) e così recuperare ulteriore produttività. La produttività stagnante in Italia non è determinata dalle poche ore di lavoro – siamo il Paese che ha l’orario medio più alto d’Europa – ma dagli scarsi investimenti sui prodotti, sull’innovazione, sul lavoro stesso. È il risultato di un modello sbagliato che ha puntato solo sulla riduzione dei costi, sulla precarietà, sul subappalto, sulle false cooperative. Ragionare del tempo di lavoro assieme a investimenti e a nuovi modelli organizzativi, significa invece promuovere un modello diverso, in cui le persone possano utilizzare la loro intelligenza per discutere e partecipare della vita della loro impresa, del loro lavoro, siano meglio preparate ai cambiamenti e possano contribuire a costruire una società più giusta: con meno diseguaglianze e competizione tra le persone che per vivere devono lavorare.

Avvenire, 19/2/2022

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