mercoledì, febbraio 01, 2023

Delitto Notarbartolo, un intreccio tra padrini e politica

PASQUALE HAMEL

Il 1° febbraio 1893, il quasi sessantenne Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, già sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia, reduce da una visita nelle sue proprietà di Sciara, si trova nella carrozza di prima classe del treno che lo porta a Palermo. 

Quando il convoglio imbocca una galleria nei pressi di Trabia entrano in azione due uomini, armati di coltello, che aggrediscono il nobile siciliano infliggendogli ben 27 pugnalate prima di scaraventarlo fuori dalla vettura. Si concludeva, così tragicamente, la vita di un uomo che aveva riempito di incubi il sonno di molti malfattori e corruttori, esponenti della società bene siciliana le cui mani rapaci si erano, fino ad allora, impunemente allungate sul danaro pubblico. Quell’omicidio affondava le sue radici in risentimenti, odi e paure che da oltre trent’anni mafiosi, approfittatori e sfruttatori avevano coltivato nei confronti di un uomo integerrimo che si era trovato a dovere combattere «la buona battaglia» della legalità fin dagli anni in cui condivise, con il sindaco Antonio di Rudinì, il tentativo di fare di Palermo un luogo ordinato e moderno scontrandosi con quel blocco clerico-mafioso che, nel 1866, approfittando del disagio sociale aveva messo a ferro e fuoco l’ex capitale siciliana.

Repressa la rivolta, con uno spiegamento di mezzi e facendo ricorso, è purtroppo in quegli anni è accaduto spesso, a metodi non certo ortodossi, Notarbartolo non ritornò immediatamente a palazzo delle Aquile che, intanto, era stato conquistato da una maggioranza clerico-regionista, dovette infatti aspettare fino al settembre del 1873.

Proprio in quell’anno la destra storica, alla quale Notarbartolo apparteneva, insieme alla sinistra riuscì a sconfiggere il partito regionista e a collocare Notarbartolo sulla poltrona di sindaco. Dal 1873 al 1876, nonostante la forte opposizione che faceva capo alla parte più retriva e conservatrice dell’aristocrazia e a quanti coltivavano ancora nostalgie borboniche, Notarbartolo impose la propria agenda amministrativa modernizzatrice. Scrive, a questo proposito, Salvatore Lupo che Notarbartolo «Mantenne la carica per tre anni, dando grande impulso alla trasformazione edilizia per cui Palermo assunse il suo volto moderno tardo-ottocentesco fatto di piazze, teatri e vie ariose, ma anche regolarizzando e risanando le finanze dell’amministrazione municipale». Da sindaco il nostro dunque confermava la propria immagine di amministratore capace, probo e irreprensibile, molto lontano da quel modello di politico meridionale, che si andava sempre più affermando, tradizionalmente sensibile al denaro come al potere. Personaggio, dunque, da ritenere pericoloso per gli affaristi e per quanti vivevano con fastidio l’idea di legalità.

Ma mentre la maggioranza che lo sosteneva si andava lentamente sgretolando, poco tempo prima che il voto, cui contribuì in maniera determinante il voto siciliano, travolgesse il governo Minghetti ponendo fine alla lunga egemonia della destra storica, il presidente del consiglio lo nominava, era il 1° gennaio 1876, direttore generale del Banco di Sicilia, allora istituto di emissione, in mano ad una cricca affaristica che, come ebbe a scrivere qualche anno dopo, «largheggiava nei favori e si lasciava dominare da correnti elettorali», sostenendo alcuni magnati locali come i potentissimi Florio. La nomina di Notarbartolo rispondeva ad una precisa indicazione, bisognava salvare il Banco dal fallimento evento che sarebbe stato tragico per l’economia siciliana e non solo. E Notarbartolo forte delle sue competenze amministrative, e il rigore con cui operò, riuscì nell’obiettivo: il banco infatti non fallì. Questo successo gli garantì l’appoggio governativo anche quando al governo fu chiamato Francesco Crispi, la cui forza elettorale traeva sostegno da quelli stessi che avevano saccheggiato le risorse del Banco. Gli scontri fra Notarbartolo e i membri del Consiglio generale del Banco si fecero, dunque, vieppiù più forti ma la goccia che fece traboccare il vaso fu la sua scelta di appoggiare il progetto di una società di navigazione con la partecipazione di capitale straniero, intesa a incrementare la concorrenza di modo da conseguire un ribasso delle tariffe per gli esportatori.

Era una sfida soprattutto ai Florio, i maggiori azionisti della Società di navigazione Italia che operava in condizione di monopolio e imponeva tariffe alte con servizi spesso non all’altezza. Fu quella la goccia che fece traboccare il vaso, Notarbartolo fu apertamente attaccato soprattutto da Raffaele Palizzolo, un deputato vicino ad ambienti mafiosi e legato ai Florio. Il progetto non andò tuttavia in porto ma era chiaro che Notarbartolo aveva toccato delle corde particolarmente sensibili visto che, dopo ulteriori scontri, il governo guidato da Crispi decise di sciogliere il consiglio del Banco e, come conseguenza, di mandare a casa il direttore generale Notarbartolo. Le denunce di Notarbartolo, ebbero comunque una coda, visto che nel ’92 Giolitti, che oltre a presidente del Consiglio era anche ministro del Ttesoro, fu grazie alle sue denunce che venne smascherata un’operazione speculativa che puntava al rastrellamento delle azioni della Navigazione Generale Italia (NGI) con i soldi del Banco a vantaggio di speculatori fra i quali lo stesso Palizzolo e che provocò un’ispezione governativa affidata a Gustavo Biagini che aveva già capeggiata l’ispezione alla Banca Romana coinvolta nel più clamoroso scandalo finanziario della storia del Regno. Le risultanze di quell’ispezione furono una sorta di vittoria di Notarbartolo che, secondo taluni boatos si accingeva a tornare alla guida del Banco. Un fatto, quest’ultimo inaccettabile per la cricca di malfattori, Palizzolo in testa, che influenzava la politica finanziaria del Banco di Sicilia. E, secondo la tesi più accreditata, proprio il timore che Notarbartolo potesse tornare alla guida del Banco convinse i suoi nemici ad agire. Dalle risultanze processuali – e in primo grado fu riconosciuto colpevole - il mandante dell’omicidio risultò essere proprio il Palizzolo che armò Giuseppe Fontana e Matteo Filippello, esponenti della cosca di Villabate da lui stesso controllata. Ironia della sorte, contro la sentenza di Bologna, che venne annullata per vizi di forma.

A favore di Palizzolo si costituì a Palermo un «Comitato pro-Sicilia», al quale aderirono, fra gli altri, i Florio e intellettuali del calibro di Giuseppe Pitré e Federico De Roberto che, come scrive Sebastiano Vassalli ne «Il Cigno», regalò a colui che il marchese di Rudinì aveva definito «una canaglia», l’aureola del perseguitato politico, e proclamò a chiare lettere che la mafia fosse un’invenzione dei continentali intesa a diffamare i siciliani.

GdS, 1/2/2023

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